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Il telescopio, anche a motivo della suggestione connessa all’antinomia realtà/finzione, rappresentò per tutta la cultura barocca un oggetto di straordinario fascino e di singolare seduzione intellettuale. L’impatto dello strumento sulla cultura dell’epoca fu davvero enorme e lasciò consistenti tracce iconografiche e letterarie. Alla radice della fascinazione per il cannocchiale troviamo non solo e non tanto la “meraviglia” dell’apparecchio, lo stupore destato dalla possibilità di «scorciar […] lunghissimi intervalli», come scrive Giambattista Marino nell’Adone, cioè di ridurre le distanze ottiche amplificando la visione, quanto, proprio, il disvelamento di «novi orbi, novi lumi, e novi moti», vale a dire le formidabili scoperte effettuate per mezzo dello strumento. La rivelazione delle “novità celesti” cambierà alle radici l’immagine del cosmo, aprendo non solo inediti scenari alla scienza astronomica, ma anche originali prospettive a una rinnovata considerazione del rapporto tra uomo e mondo. In tal senso l’occhiale, con l’estendere le possibilità della vista e, dunque, della conoscenza, sembrerà rendere gli uomini più strettamente partecipi dei misteri del creato, tanto che Johannes Kepler potrà celebrarlo come un segno dell’accresciuta potenza umana: «O sapientissimo telescopio – scriverà nella Dioptrice – più prezioso di qualsiasi scettro, se qualcuno ti tiene nella mano destra non diventa forse un re, un padrone delle opere divine?».
Proprio lo straordinario scalpore suscitato dai risultati dell’impiego astronomico del cannocchiale spiega l’enorme notorietà conquistata, in tempi rapidissimi, dal suo più audace, provetto e fortunato utilizzatore: Galileo, appunto, che costruì il suo primo telescopio nell’estate del 1609. […] È interessante notare che, una volta realizzato un primo strumento funzionante, Galileo si pose subito all’opera per migliorarlo e potenziarlo. Nel giro di pochissimo tempo egli passò da un cannocchiale a tre ingrandimenti a uno in grado di funzionare in modo tale «che quello che è distante nove miglia ci apparisce come fusse lontano un miglio solo». Verso la fine del 1609 lo strumento era stato ulteriormente perfezionato fino a raggiungere la soglia dei venti ingrandimenti, mentre, secondo quanto narrato nel Sidereus Nuncius, ai primi del 1610 Galileo disponeva di un occhiale «così eccellente, che le cose vedute attraverso di esso appariscono quasi mille volte più grandi e più di trenta volte più vicine che se si guardino con la sola facoltà naturale». L’accrescimento delle capacità operative del telescopio comportava modifiche alquanto complesse, come dimostra il fatto che, per diverso tempo, Galileo fu il solo a disporre di esemplari di eccellenza. Le difficoltà tecniche insite nell’incremento di potenza dello strumento attenevano principalmente alla costruzione di lenti di buona qualità, in grado di amplificare la visione senza distorcerla o offuscarla. Il nostro scienziato si dimostrò abilissimo nell’assolvere tale compito, lavorando spesso personalmente, con grande maestria, i “vetri” del “cannone”, di cui riusciva ad aumentare le prestazioni mantenendo al contempo una buona nitidezza dell’immagine. Ben lungi dal considerarlo nei termini di una mera curiosità foriera di “meraviglia”, Galileo seppe tempestivamente comprendere le potenzialità del “tubo ottico” quale prezioso sussidio euristico per l’indagine naturalistica. In tale prospettiva, egli non esitò ad utilizzare il proprio strumento nell’ambito della ricerca astronomica, col risultato di scompaginare radicalmente le consolidate credenze in merito all’assetto dei cieli e all’estensione del creato. Gli esiti di questa sorprendente iniziativa aprivano, di fatto, la strada a uno dei più straordinari e repentini mutamenti di scenario culturale della storia.
(da M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Roma, Salerno, 2004, pp. 151-160)*
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