È la “croce della storia” che fa nascere la domanda sul suo significato: le interruzioni e le cadute, le riprese e i nuovi inizi pongono l’interrogativo inevitabile intorno a un possibile senso di tutto questo, stimolando la ricerca di una sorta di “filo rosso”, che unifichi la frammentarietà delle opere e dei giorni degli uomini, e alimentando il desiderio di una meta, che renda in qualche modo accettabile la fatica di vivere. “L’interpretazione della storia è in ultima analisi un tentativo di comprendere il senso dell’agire e del patire degli uomini in essa” (K Löwith, Significato e fine della storia, Milano 1989, p. 23). La caduta della domanda sul senso, di fronte alla quale ci troviamo, assume in questa luce tutto il suo spessore tragico: essa non è certo prodotta da una qualche riconciliazione raggiunta, quasi che la domanda del dolore non bruci sulla carne degli uomini d’oggi, come dell’uomo di sempre, ma dalla reazione al frustrante fallimento dell’ubriacatura di senso, che l’ideologia aveva prodotto. Il calice colmo e spumeggiante dei sogni di comprensione solare del mondo, che a tutto davano senso e ragione, ha mostrato la sua insufficienza: al di là dell’ebbrezza di una stagione, il reale resta col ceppo duro delle sue resistenze e delle contraddizioni irrisolte. “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura” (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1967, p. 11).
Lì dove la ragione adulta della modernità aveva soluzioni chiare ed evidenti, organizzate all’interno di un significato onnicomprensivo e solare, il post-moderno riscopre l’oscura eccedenza della vita rispetto ad ogni “senso” ideale, il ceppo doloroso della finitudine e della morte, il travaglio non risolto del negativo, la differenza, che spiazza ogni presunzione di possesso dell’identità. È una presa di congedo dalle sicurezze, una restituzione della morte e del nulla, l’abbandono di ogni fondamento, per navigare verso l’ignoto, “senza senso”, anzi finalmente liberi dalla cattura del senso. “Pensiero debole”, “lungo addio all’essere e al fondamento”, l’avventura della differenza dopo il trionfo bacchico dell’identità pare risolversi in un puro e vuoto “ac-cadere”, in un permanente precipitare nel nulla. La perdita del senso, conseguente alla crisi delle risposte totalizzanti della ragione moderna, diventa così sempre più, sull’onda lunga del rifiuto, perdita del gusto a porsi la domanda sul senso: l’indifferenza, il disinteresse a porsi la domanda sul senso, più ancora che la stessa mancanza di un senso, si profilano come la “malattia mortale”, che pervade le società avanzate dell’Occidente di fine millennio.
Il futuro – riemerso in tutta l’inquietudine e l’oscurità che gli convengono dalle ceneri delle catture ideologiche – sembra così annegare in un nuovo abbraccio di totalità: il fondamento “forte”, onnicomprensivo e rassicurante, cede il posto all’assenza di fondamento, che però non è meno vasta e totale. Se il nulla può offrirsi come la semplice forma rovesciata del tutto, il segno meno davanti alla parentesi della realtà, l’avvenire perde nuovamente la sua oscurità: esso sarà prolungamento del presente, perpetuarsi della debolezza, continua caduta. Paradossalmente, proprio la categoria di “futuro”, in rapporto alla quale si è reso evidente il fallimento della ragione “forte” della modernità, mostra il filo rosso della continuità che lega il post-moderno nichilista al mondo da cui esso proviene e che con tanta energia rifiuta. Il “pensiero debole” deduce l’avvenire dal presente in modo non meno totalitario di quanto faccia il “pensiero forte” dell’identità di reale ed ideale: esso è incapace di stupore e di accoglienza del nuovo almeno quanto lo era la presunzione totalizzante della ragione ideologica.
L’indeducibilità e la novità del futuro richiedono allora un pensiero altro, non negligente, capace di abbandonare le catture dell’ideologia, ma anche sufficientemente vigile per non cadere in quelle del suo rovesciamento. Aprirsi a un tale pensiero significa fare i conti con l’autentica alterità e novità dell’avvenire, e perciò misurarsi con l’ultimo, senza dedurlo dal penultimo: è come se si profilasse l’esigenza di una rivelazione del senso, il bisogno di un’apocalisse, che non manifesti l’ultima Patria, svilendola nel possesso di una ideologia, ma ne rispetti la dimora in forma di una suprema Custodia. È qui che la profezia biblica – in quanto luogo dell’invenzione della storia – rivela una sorprendente attualità di riserva critica rispetto alle secche della modernità e del suo sviluppo nichilista, in quanto ha l’audacia di pensare il “nuovo” e di aprirsi alle sue sorprese, assumendo con radicale serietà la domanda sul senso…
Riferimenti Bibliografici
- Cullmann O., Cristo e il tempo. La concezione del tempo e della storia nel Cristianesimo primitivo, Bologna 1965;*
- Daniélou J., Saggio sul mistero della storia, Brescia 1957;*
- De Lubac H., La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, Milano 1981;
- Eliade M., Il mito dell’eterno ritorno, Roma 1968;*
- Forte B., Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento, Cinisello Balsamo 1991;*
- Forte B., L’Apocalisse. Introduzione e traduzione, Cinisello Balsamo 2000.
- Löwith K., Significato e fine della storia, Milano 1989;*
- Marrou HI., Teologia della storia, Milano 1969;*
- Moltmann J., Trinità e Regno di Dio, Brescia 1983;*
- Niebuhr R., Fede e storia. Studio comparato della concezione cristiana e della concezione moderna della storia, Bologna 1966;*
- Von Balthasar H.U., Il tutto nel frammento, Milano 1970.*
Testi di riferimento per la lezione
- Forte B., Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento, Cinisello Balsamo 1991, pp. 9-36.*
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