«La credenza nell’onnipresenza del sovrannaturale e nell’intervento continuo degli abitanti dell’aldilà nel mondo dei vivi costituisce un aspetto fondamentale della mentalità medievale. Per la gente d’allora, i miracoli costituivano una delle manifestazioni principali con cui si rendeva sensibile il rapporto intercorrente tra cielo e terra. Quindi, studiando la potenza che si irradiava dai corpi santi, si può sperare di porre in evidenza le rappresentazioni capitali della santità e la loro evoluzione.(…)
Il primo problema che si pone allo storico, quando vuole intraprendere l’esame dei miracoli avvenuti nel Duecento e nel Trecento, sta nel sapere se il modo in cui i fedeli cercavano di captare a proprio beneficio quell’energia benefica che si irraggiava dai santi rimase identico per tutto il Medioevo. Nelle raccolte di miracoli che risalgono all’età merovingia e carolingia, la virtus di un santo appare come una forza che agisce in un determinato luogo: bastava portarsi sulla tomba di un servo di Dio e toccarla per essere guariti. Agli inizi del Duecento, queste convinzioni non avevano perduto nulla della loro efficacia effettuale. Nei primi processi di canonizzazione, infatti, ritroviamo quasi tutti i modi e i riti di guarigione attestati per l’alto Medioevo e che risalivano in genere ad epoca pre-cristiana, per non dire alla preistoria. In genere i miracolati avevano recuperato la salute dopo essersi recati sul luogo dove giacevano i resti di un santo e dopo aver dormito nelle vicinanze di quei resti, perché si credeva che l’efficacia terapeutica avesse ancor maggiore efficacia durante il sonno.
La dormizione o incubazione accanto ai resti del santo, nel migliore dei casi, aveva termine con una visione o un’apparizione dell’intercessore invocato e subito seguiva la guarigione. Un fiotto di luce invadeva la chiesa e quando i miracolati appartenevano al gruppo dei contracti (paralizzati, emiplegici ecc.), i quali costituivano la stragrande maggioranza dei frequentatori dei santuari, si udiva un gran scricchiolio di ossa e di nervi che andavano al loro posto. Talvolta la scomparsa del male era preceduta da una copiosa sudorazione che inzuppava il malato nel corso della notte; poi il malato si svegliava all’alba, tutto arzillo e vigoroso. Era cosa rara però che il miracolo accadesse fin dal primo giorno e di norma il pellegrino doveva dimorare per molto tempo nel santuario o nei suoi pressi, e cioè almeno il tempo di una novena e talvolta due o tre settimane, prima di ottenere l’evento auspicato.
Il carattere "magico" di questi riti di guarigione trova conferma nell’atteggiamento dei fedeli nei riguardi dei santi taumaturgici, quando questi già da vivi davano prova dei loro doni. Nel processo di canonizzazione di Pietro di Morrone (Celestino V, † 1296), viene detto più e più volte che i suoi discepoli dovevano dissuadere coloro che gli venivano a far visita dal chiedergli di operare incantesimi sulle loro ferite o sulle loro membra ammalate. Il romito della Maiella non voleva essere considerato un mago e accettava solo di benedire con un segno di croce gli organi offesi. Se poi quanti erano accorsi da lui non riuscivano a vederlo (per es., le donne a cui era vietato avvicinarsi alla sua celletta) i fedeli si accontentavano di toccare gli oggetti che erano stati a contatto con lui e si rifiutavano di partire se prima non avessero avuto un segno o una grazia corrispondente alla fatica, spesso notevole, che avevano fatto per venirlo a scovare nei recessi degli Abruzzi.
Nel resto dell’Europa, le cose non andavano in modo diverso: a Sant’Ugo di Lincoln si portavano malati e pazzi perché facesse sul loro capo un segno di croce con la propria saliva. Quando Filippo Berruyer, arcivescovo di Bourges, visitava (siamo verso la metà del Duecento) le parrocchie della sua diocesi, i contadini si precipitavano ad incontrarlo per toccarlo e baciargli i piedi e chi non riusciva a tanto, baciava le orme del suo cavallo. Né i religiosi erano da meno, tanto è vero che, nei monasteri dove il vescovo veniva ospitato, gli si portavano i monaci malati perché li liberasse dai loro malanni. Questa universale fiducia nella virtù taumaturgica dei vescovi si deve indubbiamente porre in relazione con il fatto che erano detentori del potere sacerdotale nella sua pienezza e che, come gli apostoli di cui erano i successsori, erano soliti imporre le mani sia sui malati sia su quanti chiedevano il sacramento della cresima.
E’ questo che ci può far capire come reagiva Giovanni Buono – un laico -, il quale a quanti venivano ad implorare la guarigione da lui, soleva dire "non sono né un prete, né un medico" prima di cedere, per amor di carità, alle loro istanze.
Ma sarebbe sbagliato pensare, sulla base di alcuni degli esempi citati, che l’atteggiamento delle moltitudini nei confronti del miracolo fosse rimasto immutato dai tempi di san Martino. Un fenomeno nuovo e importante ci palesa, invece, un mutamento sensibile nei rapporti tra le creature umane e gli intercessori celesti e si tratta dell’aumento in percentuale di miracoli compiuti dai santi lontano dal luogo in cui riposavano le loro spoglie. In molte regioni, dopo il 1200, la promessa o il voto di portarsi sulla tomba di un servo di Dio per ottenerne un favore si fece "condizionale" ovvero il supplicante si sentiva in obbligo di adempiere alla promessa fatta solo se la grazia auspicata gli fosse stata accordata. Il gesto (recarsi in pellegrinaggio alla tomba del santo) continuava ad essere praticato, ma si trattò ormai di un rito di soddisfazione, non di un atto indispensabile perché si attuasse il miracolo. Le guarigioni a distanza si fecero sempre più frequenti dopo il 1300, come attestano i processi di canonizzazione di san Ludovico d’Angiò, di sant’Ivo e di Carlo di Blois. (…)
Tuttavia, in generale, la devozione per i santi mostrò la tendenza negli ultimi secoli del Medioevo a divergere dal culto delle reliquie, anche se, nei voti "condizionali", rimaneva pur sempre un riferimento topografico concreto. In virtù di tale evoluzione i poteri dei santi acquisirono una portata universale, dato che erano congiunti meno che in passato ad un unico luogo: quello in cui erano sepolti. E soprattutto si accrebbe la efficacia spirituale della venerazione per loro nel senso che la loro azione benefica non si esercitava più in maniera automatica, ma tramite dei "ripetitori", quali l’immagine e la parola, atti a trasmettere un messaggio religioso specificamente cristiano.»
(da André Vauchez, La santità nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 447-452)*
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