La globalizzazione esige uno spazio politico adeguato, che non è uno spazio globale, a consentire lo sviluppo delle dinamiche che essa porta con sé. Insomma, per evitare da una parte le risposte reattive (o reazionarie) alla globalizzazione che ripropongono grandi o piccole comunità, e per non consegnarsi dall’altra, all’insensatezza tragica dell’estraneazione universale, ai vortici della «bufera infernal che mai non resta» – alla quale una coscienza credente potrebbe solo opporre il motto «stat crux dum volvitur orbis» -, non è detto che si debba accedere ai sogni democratici cosmopolitici, destinati a infrangersi contro la realtà di nuove gerarchie, di nuove striature particolaristiche dello spazio che delimitano le nuove «fortezze» dei ricchi. Anzi, come è la politica che rende possibile l’impolitico, così è uno spazio politico determinato la condizione di ogni pensabile «esposizione» del Sé agli altri, e anche di ogni confronto dialettico col vortice globale del nuovo Impero; quale che sia la nuova politica che dalla globalizzazione può trarre vita, sarà insomma una politica che non capiterà a caso, ma in uno spazio che – benché non qualificato né geometrizzato -, sarà stato almeno approntato perché la possibilità del Nuovo vi possa essere riconosciuta. Senza una determinazione politico-spaziale concreta c’è solo virtualità informe, inautenticità dominata. E non c’è neppure pluralità, sì solo dispersione.
Così, in limine alla provvisorietà del nostro tempo e del nostro spazio si staglia anche l’alternativa europea, l’alternativa, cioè, di un’Europa che torni ad essere la terra della differenza. Ma non nel senso oppositivo delle antiche geografie politiche, né come centro del mondo come ai tempi dello jus publicum europaeum, né come terra dello Spirito autocosciente, e neppure come la ferita sanguinante, come la terra di frontiera, del tempo della Guerra fredda. Quella a cui si pensa è un’Europa che abbia del tutto consumato il proprio tramonto nichilistico, e che quindi si sia lasciata alle spalle anche il suo preteso destino di essere un’appendice dell’Occidente. Un’Europa che non pretenda di essere, come Husserl la concettualizzava, la «teleologia storica di fini razionali infiniti», che non voglia salvare il mondo da se stesso, ma che si proponga almeno come uno spazio politico dotato di senso.
Ovvero, che si proponga di ri-attualizzare la politica: non certo di risuscitare il big government, ma di uscire dalla credenza nei presunti automatismi del mercato; insomma, non di estendere lo spazio della politica, ma di accrescerne l’intensità – la progettualità «visionaria» – perché la politica sia ancora capace di farsi spazio. In quest’ottica, la differenza-Europa consisterebbe nel suo essere uno spazio che non è soltanto una funzione casuale, «glocale», degli automatismi del dominio; e precisamente come uno spazio che – senza atteggiarsi pateticamente come il katechon della globalizzazione, come l’Idea politica che a questa si contrappone frontalmente, e neppure, ovviamente, come il «luogo» delle «radici», delle «piccole patrie» in senso regressivo e agorafobico – è alternativo, pur essendo ad esso interno, all’orizzonte globale, perché è lo spazio in cui le chiusure o le aperture (cosmopolitiche, impolitiche o rivoluzionarie) che la globalizzazione spinge a immaginare possono diventare effettuali. Perché è lo spazio – che non si chiude orgogliosamente e che non si apre passivamente – in cui le sfide e le opportunità della globalizzazione sono non rifiutate ma neppure accettate supinamente, sì anzi raccolte e messe a valore.
Si parla qui, dunque, dell’Europa come del frutto della ragione pratica, come il risultato dello sforzo prosaico, ma anche appassionato, di tracciare nuovi confini che siano di nuovo in grado di stabilire che c’è uno spazio in cui non tutto è possibile; uno spazio, cioè, in cui le potenze globali vengono piegate a prendere figure determinate, in cui la mobilità e l’incontro cosmopolitico sono anche una ricchezza umana, non solo una coazione dettata da imperativi economici. In concreto, questa Europa esisterebbe come spazio sovrano dei diritti non genericamente umani ma concretamente e istituzionalmente garantiti in una costituzione politica continentale; come lo spazio reale del costituzionalismo in cui – sdrammatizzandosi sempre più la questione della cittadinanza, ed essendo possibili cittadinanze plurime, anche provvisorie – si realizzerebbe un equilibrio tra particolare e universale in qualche modo simile alla “diversità coordinata” di Montesquieu.
Dalla necessità di questa Europa non se ne può certo dedurre la realtà effettuale. Ma se ne può trarre almeno l’impegno – un impegno infinitamente lungo e complesso da realizzare – a immaginare un processo costituente in chiave federale, capace di organizzare una costituzione le cui istituzioni «costituite» non pretendano di esaurire e rinchiudere le energie «costituenti»; un processo politico che non ricada nella mistica unitaria del potere costituente. Un processo che andrà ben al di là della moneta unica ma del quale non si vedono ancora né i soggetti (Stati e popoli dovranno per lungo tempo coesistere, benché siano portatori di interessi diversi) né l’esito che non potrà essere né la restaurazione del sistema di Vestfalia, né un unico mega-Stato, né una riedizione del Sacro Romano Impero). Un processo capace di «figurare» non certo i confini di una nuova fortezza-Europa ma sì uno spazio grazie al quale – nel quale – si possa sperare che la Terra non conosca, quali unici segni che la dotano di un qualche senso, soltanto i tracciati degli oleodotti, disegnati dalla cartografia del potere globale.
(da C. Galli, Spazi politici, Bologna 2001, pp. 169-172)*
Riferimenti Bibliografici
- J. Anderson, C. Brook, A. Cochrane (eds.), A Global World? Re-ordering Political Space, Oxford, 1995;
- J. Habermas, La costellazione post-nazionale, Milano, 1999;*
- D. Held, Democrazia e ordine globale, Trieste, 1999;
- M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, 2002;*
- O. Höffe, Demokratie im Zeitalter der Globalisierung, München, 1999;
- I. Ramonet, Geopolitica del caos, Trieste, 1998.
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