La mia intenzione è discutere, con riferimento alle politiche sanitarie, gli elementi essenziali che ci consentono di capire le direzioni di cambiamento verso le quali si sta muovendo il nostro Paese e in particolare le Regioni più vicine alle nostre realtà. La parola che più frequentemente viene utilizzata in questo momento è devolution, un termine impiegato per descrivere un processo di decentramento delle competenze dal livello centrale ai livelli regionali e, successivamente, ai livelli locali. A partire dal 1992 si è avviata, in Italia, la regionalizzazione delle politiche sanitarie, attraverso l’attribuzione alle Regioni della responsabilità sul lato della spesa, mentre la responsabilità sul lato del finanziamento è rimasta sostanzialmente del livello centrale, che trasferisce le risorse dal bilancio dello Stato a favore delle Regioni.
Verso la fine degli anni 90, il decentramento – prima meramente amministrativo poi sempre più decisionale – si completa attraverso il provvedimento dell’anno 2000 sul federalismo fiscale e la modifica del titolo V della Costituzione. Qual è, in sintesi, il cuore del cambiamento? Attualmente le Regioni hanno completa responsabilità non soltanto dal lato delle scelte decisionali sulle politiche sanitarie, ma anche dal lato del reperimento delle risorse. Ovvero, devono garantire che le spese non superino le risorse che, attraverso la riforma del sistema fiscale, sono state messe loro a disposizione. Può sembrare una questione meramente tecnica, o giuridica, che ha a che vedere con l’attuazione della vecchia Costituzione e con la sua modifica, ma in realtà ha rilevanti implicazioni. Il quesito non è banale, perché il Servizio sanitario nazionale parte dalla consapevolezza che la salute è un bene di interesse nazionale e che, in quanto tale, va tutelata a livello dell’intero Paese e non in modo differenziato nelle singole Regioni. Ciò nonostante, il nostro Paese sta andando verso una devoluzione che potrebbe portare a differenze sostanziali del diritto alla salute.
Le ragioni del recente decentramento sono, sostanzialmente, di tre tipi. In primo luogo, è chiaro che il decentramento non è stato voluto solo dagli enti decentrati, ma anche dal governo centrale. L’amministrazione centrale, infatti, aveva bisogno (nella seconda metà degli anni 90) della collaborazione dei livelli decentrati per rispettare gli impegni presi con l’Europa. Il processo di risanamento della finanza pubblica non aveva altrimenti possibilità di essere perseguito, posto che il potere di spendere era in mano alle Regioni e ai Comuni. Di qui la necessità di scambiare con gli enti decentrati una parte della leva fiscale in cambio di una forte corresponsabilizzazione al rispetto dei tetti di spesa e alla realizzazione degli obiettivi concordati in sede europea. Questo spiega perché ci sia stata un’accelerazione, non soltanto dietro la spinta delle Regioni, ma in primo luogo del Ministero del Tesoro, che aveva interesse nel coinvolgimento delle Regioni in questo processo.
In secondo luogo, si stanno diffondendo posizioni a favore, da un lato, di sistemi alternativi di finanziamento della sanità e, dall’altro, di privatizzazione della produzione di servizi. Ora, i sostenitori di tali posizioni si rendono conto che soluzioni alternative al Sistema sanitario nazionale non sono percorribili, date le notevoli differenze interregionali in termini di reddito, di consenso nei confronti dell’intervento pubblico, di soddisfazione nei confronti della sanità pubblica. Quindi, il superamento del SSN sarebbe possibile solo (eventualmente) a livello regionale. Inoltre, l’intermediazione finanziaria assicurativa, che dovrebbe giocare un ruolo rilevante nell’introduzione di sistemi alternativi, è consapevole delle molte difficoltà che lo sviluppo del settore presenta, salvo prime sperimentazioni a livello regionale. Ne discende che il decentramento è funzionale alla creazione di un contesto istituzionale e giuridico che permetta di sperimentare in qualche realtà regionale forme alternative di organizzazione e finanziamento della Sanità.
In terzo luogo, vi è una ragione che non tocca direttamente la sanità: la richiesta di maggiore autonomia avanzata dalle Regioni, in particolare da quelle più ricche del Nord, nei confronti di uno Stato che per svolgere le proprie funzioni ha bisogno di un crescente prelievo fiscale, ma non riesce a sostenere lo sviluppo delle aree deboli. Un’autonomia, quindi, che sembrerebbe prescindere dall’impatto sul settore sanitario, anche se non può essere ignorato che le regioni a statuto ordinario destinano tre quarti dei loro bilanci alla sanità. Il decentramento ha quindi importanti ricadute sulla sanità, e non è una semplice risposta a una richiesta di maggiore autonomia delle Regioni. Sotto un altro profilo, il decentramento può essere considerato un modo per affrontare una delle questioni storiche più impegnative e irrisolte del nostro Paese: la questione meridionale. Si tratta di un aspetto molto delicato che ha favorito un’accelerazione del processo di decentramento.
Quali i possibili effetti? Il nuovo titolo V della Costituzione afferma che le politiche per la salute sono materia a legislazione concorrente, cioè il potere di regolamentazione compete alle Regioni in un quadro generale definito a livello nazionale. Per la sanità, il quadro nazionale è in parte già tracciato (mentre non è così per gli altri diritti sociali e civili): la riforma sanitaria del ‘99 ha delineato i principi generali ai quali si ispira il SSN e ha indicato i livelli di assistenza da garantire in tutte le Regioni (successivamente dettagliati in un decreto del novembre del 2001). Il contesto normativo è, quindi, tra i più evoluti, ma il quadro è stato definito in epoca di pre-federalismo fiscale, ed è perciò necessario rivederlo.
Quali le ricadute, dunque? Un primo aspetto attiene alle differenze interregionali. Nel corso degli ultimi vent’anni, sono stati compiuti notevoli passi avanti per ridurre i divari nella sanità delle diverse Regioni. Non possiamo peraltro nasconderci che importanti differenze continuano a permanere, non tanto in termini di spesa pro-capite, quanto piuttosto in termini di completezza e qualità dell’offerta di servizi. In tale situazione, l’obiettivo avrebbe dovuto essere la riduzione delle diseguaglianze. In realtà, le differenze sembrano essere destinate ad aumentare: infatti, si osservano già nuove disparità di trattamento, come quello sulla farmaceutica, con liste di farmaci garantiti e sistema di ticket differenziati per Regione, o quello determinato dai provvedimenti a copertura dei disavanzi, con aumenti del prelievo fiscale differenziati per Regione. Bisogna peraltro osservare che la situazione dei disavanzi è molto diversificata: alcune Regioni chiudono sostanzialmente in pareggio mentre altre presentano disavanzi molto rilevanti. Pur con le dovute cautele, i dati indicano che le Regioni che per prime hanno adottato una politica di rigore si sono presentate alla sfida del federalismo con i conti più solidi. Per contro, quelle che si sono sempre rifiutate di programmare (che per decenni si sono rifiutate di predisporre un Piano sanitario regionale) presentano ora grossi disavanzi. Sotto questo profilo è importante rilevare che persino una Regione come il Lazio, che aveva sempre rifiutato lo strumento della programmazione, ha avviato la predisposizione di un documento programmatico.
Un secondo motivo di preoccupazione è legato alla debolezza tecnica della dirigenza delle amministrazioni regionali. Il governo centrale dispone di competenze specifiche, i Comuni hanno acquisito grandi esperienze, mentre le Regioni hanno importanti responsabilità, ma non hanno la capacità tecnica e politica per affrontarle. Di qui i numerosi dubbi circa le possibili ricadute su un terreno delicato come quello della Sanità, spesso ampiamente condizionato dalle pressioni dei gruppi di interesse che operano dal lato dell’offerta di servizi. Ulteriori problemi sono osservabili nei settori che si occupano delle persone più deboli, della non autosufficienza, dei tossicodipendenti, della salute mentale ecc., dove, in alcune Regioni, si sono già segnalate cadute dell’offerta.
Fra l’altro, il federalismo fiscale doveva comportare l’introduzione di un meccanismo di monitoraggio qualitativo e quantitativo dell’assistenza effettivamente erogata, in modo da rendere consapevoli i cittadini delle differenze interregionali e delle alternative alle quali rinunciano. Ma questo sistema di monitoraggio non è ancora stato messo a punto (se non in termini molto generali) ed è importante che ci siano sedi, anche non istituzionali, in cui ci si confronta per capire cosa fanno le diverse Regioni e per vigilare sull’assistenza garantita alle fasce più deboli, che sono prive di sponsor e di difensori. È fra i più deboli che si potranno vedere, fra 5 o 6 anni, le differenze fra una Regione con sistema sanitario rivolto al mercato (e che sostiene soprattutto la crescita dell’industria della salute, della diagnostica, della farmaceutica, delle tecnologie ecc.) e una Regione con un sistema solidaristico. Il problema è distinguere e tenere separate le esigenze dei cittadini da quelle dell’industria dei servizi sanitari. Di qui l’esigenza di vigilare sulle aree più esposte al rischio di progressive riduzioni dell’offerta.