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Nelle diverse classificazioni dei peccati messe a punto dai teologi e dai moralisti medievali il peccato di infidelitas costituisce spesso un nodo problematico. Assente dallo schema più diffuso, quello dei sette vizi capitali, l’infidelitas compare a tratti in altre classificazioni (vizi contrapposti alle virtù, peccati contro Dio, contro il prossimo e contro se stessi, peccati che infrangono i comandamenti), ma tende a confondersi con altri peccati quali eresia o idolatria. Questa difficoltà di classificazione sottintende un ben più grave problema di definizione dell’infidelitas e del suo statuto morale. Cosa si intende infatti propriamente per “mancanza di fede”, e come è possibile definire in relazione al contesto storico medievale la figura dell’infedele? La riflessione teologico-morale di Abelardo può essere considerata una sorta di laboratorio in cui si sperimentano le diverse risposte a tali interrogativi: il paradosso dei crocifissori di Cristo, infedeli ma non peccatori, segnala una spaccatura tra etica e teologia e impone una ridiscussione sia del concetto di peccato, sia della nozione stessa di fede. In effetti il dibattito sulla natura della fede che attraversa i secoli XII e XIII rende ragione delle oscillazioni sul problema dell’infidelitas (assimilata ora al peccato di ignoranza, ora alle colpe più gravi come eresia o odio di Dio) e spiega i meccanismi di inclusione ed esclusione di diversi gruppi sociali (pagani, musulmani, ebrei, eretici) nella categoria degli infedeli.
Riferimenti Bibliografici
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