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Quando fu chiaro che l’Europa allargata, dopo l’accordo di Nizza (2000), sarebbe stata ingovernabile, riapparve il tema della costituzione, vecchio desiderio dei migliori «federalisti» italiani, da Alcide De Gasperi ad Altiero Spinelli. Se il negoziato sul sistema di voto e sui seggi disponibili per ogni paese aveva prodotto pessimi risultati, occorreva riprenderlo all’interno di un disegno più organico e ambizioso. Fu deciso che l’Assemblea costituente, con un omaggio al federalismo americano, si sarebbe chiamata Convenzione (2002-2003) e che avrebbe avuto il compito di proporre ai governi un trattato costituzionale. Il tono del dibattito fu alto. Vennero affrontati con discussioni intelligenti alcuni temi nobili: le radici cristiane e culturali dell’Europa, il concetto di cittadinanza, la Carta dei diritti, la natura giuridica dell’Unione. Ma il nodo da sciogliere restava quello del sistema di voto. La proposta, approvata con una sorta di consenso, fu simile a quella adottata per i referendum svizzeri e per gli emendamenti alla costituzione americana: la maggioranza degli Stati (tredici nel caso dell’Europa a venticinque) e quella della popolazione (almeno il 60 per cento). Era un buon sistema che conciliava le esigenze della demografia con i diritti degli Stati minori e lasciava intravedere un’Europa finalmente federale. Ma alla conferenza intergovernativa (2003), dove ogni Stato aveva diritto di veto, Spagna e Polonia difesero il voto ponderato, vale a dire il diritto di rendere estremamente improbabile qualsiasi decisione che non corrispondesse alla loro volontà. Prevalse ancora una volta, in sostanza, il criterio dell’unanimità, vale a dire il mediocre concetto di un’Europa in cui le decisioni sarebbero state adottate soltanto se avessero accontentato tutti e nessuno. Molti paesi lasciarono che Spagna e Polonia facessero la loro battaglia in prima linea, ma furono soddisfatti dei risultati. La classe dirigente di ogni paese difendeva anzitutto se stessa. Non sarebbe giusto, tuttavia, attribuire il fallimento della conferenza intergovernativa soltanto agli interessi delle singole nomenklature. Le ultime fasi dell’integrazione europea, dall’adozione dell’euro al dibattito sulla costituzione, hanno coinciso con manifestazioni di nazionalismo e di euroscetticismo. Ma questo nazionalismo non ha nulla a che vedere con quello da cui l’Europa è stata afflitta sino alla seconda guerra mondiale. Mentre il vecchio era aggressivo ed espansivo, il nuovo è regressivo, difensivo, vittimista, fondato sulla convinzione che ogni comunità, per meglio difendersi, debba alzare barriere protettive e fermare i «barbari alle porte»: una definizione che include sia le multinazionali, sia gli immigrati, soprattutto islamici. Più che nazionalismo bisognerebbe definirlo comunitarismo o localismo. Non crede nel proprio Stato, diffida della classe politica, non conosce altro patriottismo fuor che quello della propria isola, del proprio campanile o della propria corporazione. Ma chiede allo Stato di difenderlo da tutto ciò che può mettere in discussione il capitale di privilegi e garanzie che ogni europeo ha accumulato con politiche socialdemocratiche e assistenzialiste dopo la seconda guerra mondiale. Gli argomenti sono quelli adottati generalmente da tutti i movimenti localisti cresciuti nei paesi dell’Unione europea durante gli ultimi anni, dal Belgio alla Spagna, dalla Scozia alla Corsica: difesa delle proprie «radici» contro la globalizzazione, il livellamento, l’omologazione, i poteri forti, la plutocrazia e l’eurocrazia […]. Il fenomeno non è sorprendente e coincide in genere con tutte le fasi di grande modernizzazione tecnologica. La cultura e l’appello alla tradizione sono soltanto il nobile alibi di gruppi sociali che vedono nella modernità un attentato alla loro condizione sociale e difendono strenuamente il diritto di non cambiare, di non accettare nuove sfide, di non rimettere in discussione la loro formazione professionale. Temono l’Europa del mercato unico e della moneta unica perchè la ritengono un volto della globalizzazione. Hanno ragione. In un mondo in cui il mercato tende a diventare mondiale e le imprese debbono adattarsi a nuove condizioni di lavoro, l’Unione non è soltanto la realizzazione di un ideale: è l’unica dimensione europea capace di sostenere l’impatto della modernità. Ma una parte dell’Europa (un continente che ha dimostrato in passato una straordinaria capacità di adattamento e trasformazione) ha oggi con la modernità un rapporto ipocrita. Ne vuole i vantaggi, ma non è disposta a pagarne i costi: ricerca scientifica, mobilità, riconoscimento del merito, diritto d’intraprendere e di fallire. Insomma consuma la modernità degli altri e ne consuma, purtroppo, molta più di quanta non ne produca.
(da S. Romano, Europa. Storia di un’idea, Milano, Longanesi, 2004, pp. 203-206)*
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