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I generi testuali tendono a produrre interpretazioni conformi a essi. Così i commentari su precetti e regole molto spesso hanno a loro volta un carattere normativo e prescrittivo, come accade per la Mishna e altri commentari antichi e moderni sui codici di legge; anche l’esegesi dei testi filosofici in genere adotta la formula di argomentazione, prova, confutazione, introdotta da Aristotele nei suoi trattati sui filosofi precedenti e che ancora oggi si ritrova nei repertori disciplinari. Analogamente anche i testi interpretativi che spiegano opere narrative hanno enormi probabilità di essere a loro volta una forma di narrazione. In genere i lettori di tali opere sono sempre stati interessati ai mondi che esse descrivono, alle qualità, agli eventi e alle vicissitudini dei personaggi messi in scena più che ai particolari meccanismi testuali con cui questi mondi vengono raffigurati. Il medium verbale dirige l’attenzione e l’immaginazione dei lettori (e degli ascoltatori) verso i fatti e i personaggi rappresentati. E non sorprende quindi che tale medium, per quanto sia reale, tenda a dissolversi nella coscienza del fruitore e a svanire a favore degli eventi narrati. Noi non vediamo più le lettere c-a-n-e né sentiamo il suono «cane» ma immaginiamo un cane che abbaia. Ovviamente non è affatto impossibile trovare interpretazioni non-narrative di opere narrative (i professori di letteratura si sono guadagnati da vivere in questo modo già a partire dall’epoca ellenistica), ma storicamente sono casi meno comuni e diffusi.
L’«esfoliazione» delle narrazioni secondarie da quelle principali spesso mette in ombra la sottile linea che separa una «mera» interpretazione, volta a estrarre il significato di narrazioni precedenti attraverso strumenti narrativi, e una «nuova» narrazione che intende raccontare la stessa storia in modo più convincente. Il secondo autore – autore e interprete nello stesso tempo – scopre nel testo precedente dei «vuoti» che cerca di colmare con informazioni aggiuntive per far luce sulla concatenazione degli eventi. Oppure vuole fornire una versione differente degli stessi eventi, modificando il punto di vista dal quale sono stati raccontati o le motivazioni psicologiche che li hanno determinati o i giudizi morali espressi al riguardo, più o meno esplicitamente, dai personaggi o dal narratore. Questo è il meccanismo di fondo mediante cui si sono sempre sviluppate le tradizioni narrative. È in questo modo che Omero ha interpretato le versioni dell’epica orale che sentiva raccontare, ha scoperto la struttura generale delle tradizioni eroiche incarnate in esse e ha creato una nuova versione delle vecchie storie, che erano quindi sia un’interpretazione di tali tradizioni sia una critica dei predecessori e dei rivali. Analogamente, una volta che una versione standard degli eventi eroici era diventata relativamente ben definita e che la fluidità della tradizione orale aveva iniziato a cristallizzarsi, le sue storie potevano essere affidate ai poeti e ai pittori perché le interpretassero e narrassero da capo con i loro mezzi espressivi. A Roma le res gestae dei personaggi più illustri della patria si tramandarono nelle cronache delle famiglie patrizie proprio per essere continuamente rinarrate e variate, fino a divenire storie relativamente istituzionalizzate, dapprima nella storiografia di epoca repubblicana e infine nella grande sintesi del periodo augusteo fornita da Livio. E nella tradizione ebraica le storie ellittiche, ambigue e controverse della Torah vennero interpretate in narrazioni successive, in special modo nella Midrash haggaddica, che cercò di spiegare il loro significato rinarrandole a sua volta.
(da G.W. Most, Il dito nella piaga. Le storie di Tommaso l’incredulo, Torino, Einaudi, 2005, pp. 75-76)*
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