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Il lavoro ha tracciato la via principale per il perseguimento dei benefici che i sistemi sociali consolidatisi nella modernità hanno messo a disposizione attraverso le logiche – sempre più allargate – della produzione e del consumo. Ora questa fonte di ricchezza sociale rischia di disseccarsi, proprio quando i suoi frutti sembrano al colmo dell’abbondanza. Come rimedio non bastano operazioni di semplice trucco. Paradossalmente, il lavoro può nutrire la speranza di uscire dalla propria crisi se si dispone a un assetto dell’umano nel quale cessi la sua preponderanza abnorme. Il lavoro non basta più alla pienezza dell’umano; ma non basta più nemmeno a se stesso. Non di solo lavoro quindi: è la condizione grazie alla quale si può dare respiro allo stesso lavoro.
Qui si schiudono le prospettive sul nuovo. Solo se l’attività degna degli uomini e delle donne di oggi non si riduce al lavoro, si apre la disponibilità al servizio, cioè a un agire non produttore immediatamente di beni o di merci di scambio ma erogatore di tempo (allo stato, per così dire, puro e non come funzione della merce), di cura, di relazione. Che ciò possa avere anche riconoscimento economico è augurabile: sarebbe un ampliamento della nozione di valore e di bene per cui gli individui e la società decidono di impiegare le proprie risorse. Che inoltre ciò possa dare luogo a nuovi profili lavorativi o di mestiere è pure augurabile oltre che prevedibile. Così come augurabile e prevedibile è che la stessa economia di mercato giunga a produrre in misura crescente beni e servizi per la persona e per la relazione tra persone, superando l’orizzonte della soddisfazione esclusivamente individualistica. […]
Riteniamo che il mutamento di qualità da noi auspicato si potrà ottenere solo a patto che il lavorare sia visto sempre più come parte della sfera dell’agire individuale e collettivo e, quindi, a partire da questa sfera venga rivestito di significati nuovi e investito di funzioni finora inespresse o latenti. Come pure riteniamo che, senza il radicamento dell’agire in un essere da partecipare e condividere in una positività storica che è compito di tutti far accadere, sia più difficile mantenerne l’orientamento virtuoso, realizzare cioè pienamente la potenza o la virtualità dell’agire.
Per questi motivi la questione del superamento della rigidità del modello del lavoro si rivela anzitutto una questione antropologica. O l’umano si ri-definisce nella varietà delle proprie componenti costitutive, che al lavoro associano solidalmente l’agire e l’essere, oppure rimarrà chiuso nella «gabbia di acciaio» in cui la civiltà del lavoro si è impigliata. Una più adeguata impostazione etica del lavoro è perciò conseguente alla sua ricomprensione antropologica e cioè alla collocazione del suo senso nell’intero contesto delle espressioni dell’umano.
(da F. Totaro, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Milano, Vita e Pensiero, 1998, pp. 1-3)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
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