Attraverso il suo stile, il suo linguaggio e la sua ideologia, il fascismo si sforzò di ricreare in tempo di pace le tensioni proprie della guerra. La militarizzazione della società, che metteva tanti italiani in uniforme fin dalla prima infanzia, traeva palesemente la sua ispirazione dall’esperienza delle trincee. Le campagne governative – per la stabilizzazione della lira, per realizzare un aumento della produzione di grano, della popolazione e perfino del bestiame nelle aziende agricole – venivano invariabilmente designate come «battaglie». Quest’uso tenace di metafore militari mirava a riprodurre l’acceso nazionalismo sviluppatosi durante la guerra in una minoranza di italiani, trasferendolo alle masse. E il successo di quest’operazione aveva per il fascismo un’importanza fondamentale. L’isterico nazionalismo degli anni di guerra era servito a giustificare ideologicamente politiche sociali repressive e un governo autoritario, e a legittimare la coercizione e la repressione da un capo all’altro del paese. L’idea era che in tempo di pace dovesse svolgere lo stesso ruolo per i fascisti (…).
La coscienza nazionale doveva essere una coscienza fascista. Il fascismo compì un tentativo molto esplicito di formare un’identità nazionale – ma sul suo proprio terreno. Lo attestano chiaramente tutta la nuova politica della propaganda, l’uso dei mass media, il Dopolavoro, le dimostrazioni pubbliche, ecc. Anche in tempo di pace, la mobilitazione di massa mirava a infondere in tutti gli italiani il senso di un’identità fascista, e per ciò stesso nazionale. La questione della misura in cui questo sforzo raggiunse il suo scopo è ovviamente legata all’intero problema del consenso. A questo proposito, e in rapporto al tema dell’identità nazionale, vale forse la pena di fare un paio di considerazioni.
La prima è che sarebbe futile negare un qualche tipo di nazionalizzazione di una parte delle masse. Il problema è chi, dove e quando. Rimane difficile valutare con precisione l’effetto dell’ideologia e della propaganda fasciste. Per molti – forse la maggioranza – si trattò di un consenso indotto, e quindi passivo: dietro la tessera del partito o l’adesione al sindacato fascista stavano l’intimidazione e il bisogno di lavorare. Dove l’ideologia ebbe un peso, fu nel caso di gruppi abbastanza ristretti che vedevano nel fascismo l’articolazione del desiderio di emergere sulla scena degli Stati nazionali dopo le frustrazioni della guerra. Il tentativo di contare a livello internazionale, insieme con la promessa di ordine e disciplina sociale in patria, esercitò probabilmente la sua massima influenza sulla piccola borghesia urbana. Dopo tutto, il messaggio veicolato dal fascismo era abbastanza semplice. C’era l’illusione di uno Stato forte, dell’identità degli interessi personali e di quelli nazionali, e di una posizione sociale garantita: una rassicurazione gradita in tempi di rapida trasformazione sociale ed economica. Per i dipendenti pubblici e semipubblici (le cui file andavano gonfiandosi), questo era molto importante. Ma le riserve riguardo al fascismo che altri gruppi sociali – la classe operaia settentrionale, buona parte dei contadini, l’alta borghesia – conservarono durante tutto il ventennio resero questa «nazionalizzazione delle masse» debole e a conti fatti poco convincente. Le pretese fasciste a un monopolio del patriottismo erano tendenzialmente nocive per qualunque senso latente di coscienza nazionale o identità nazionale, con il risultato che in molti persisteva la vecchia frammentazione dell’identità creata dalla diffidenza nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni.
(da P. Corner, Riformismo e fascismo. L’Italia fra il 1900 e il 1940, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 207-209)
La fascistizzazione della società costituì l’architrave del progetto totalitario, perché esso implicava non solo il controllo sociale di stampo poliziesco e autoritario, ma anche l’attivazione del consenso e l’organizzazione della mobilitazione collettiva nei confronti del "nuovo ordine" idealizzato dal regime e dei suoi miti politici: il culto del duce, i sogni imperiali, l’esaltazione della guerra, lo spirito gerarchico. La repressione di ogni dissenso doveva combinarsi con la trasformazione progressiva dell’italiano nell’«uomo nuovo» vagheggiato dal fascismo: si apriva dunque lo spazio per una grande opera capillare e pervasiva di pedagogia collettiva rivolta a cambiare radicalmente lo spirito pubblico e a integrare sempre più i cittadini nello stato fascista. Il perno attorno a cui ruotò questo programma politico fu in larghissima parte il Pnf. Il partito, contrariamente all’immagine di centro burocratico elefantiaco e grottesco dispensata a piene mani da tanta pubblicistica non solo antifascista, si impose in realtà come il "grande pedagogo" incaricato di canalizzare l’adesione convinta degli italiani al fascismo e costituì lo strumento attraverso il quale il fascismo si caratterizzò come la prima esperienza politica originale di democratizzazione totalitaria. (…)
Ma la capacità del partito di generare consenso non si basò esclusivamente sulla forza della sua potentissima macchina propagandistica; affondò le sue radici anche nella sua natura di efficace strumento di ascesa sociale. Il Pnf, con la sua capillare architettura organizzativa basata sul funzionariato politico, e con la sua presenza in tutte le istituzioni dello Stato, venne progressivamente costruendo una nuova burocrazia specializzata, secondo la calzante definizione di Mariuccia Salvati, «nell’esercizio del potere politico autoritario». Man mano che il partito riusciva a mettere sotto il suo controllo segmenti sempre più ampi della catena di comando del regime e a estendere la gestione del sottogoverno, la dilatazione quantitativa di questa burocrazia politicizzata si configurò come un formidabile canale di promozione sociale delle classi medie. La piccola e media borghesia trovarono così nel partito, in quanto moderno imprenditore politico, una struttura in grado di fornire occasioni per "carriere" privilegiate in termini di reddito e di status (…). Seppur prive nella stragrande maggioranza dei casi di effettivo potere decisionale, queste collocazioni sociali garantirono agli strati intermedi di assurgere a classe dirigente nazionale, entrando in competizione con le tradizionali élites borghesi e strappando loro il primato per quel che riguardava la formazione del ceto politico nazionale e locale. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, dunque, il partito era diventato un solidissimo centro di potere a cui facevano capo sia gli strumenti preposti alla creazione degli spazi di attivismo politico volti a rispondere, in chiave liturgica, alla domanda di partecipazione democratica che proveniva dalla società civile, sia il controllo della selezione dei gruppi dirigenti del regime, e la stessa legittimazione politica dei rappresentanti delle istituzioni.
(da A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001, pp. 228-229 e 238-240)*
Presiede: Giuliano Albarani
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