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La fede cristiana formula affermazioni che riguardano anche il rapporto tra Dio e questo mondo, lo stesso mondo del quale parla la scienza. Lo fa, e in questo Stephen J. Gould e i teologi “per bene” hanno ragione, su un piano diverso rispetto alla scienza, con un linguaggio, una struttura argomentativa e finalità diverse e «non sovrapposte». Ma il mondo del quale si parla è lo stesso e il primo articolo del Credo confessa che Dio è il creatore di questo mondo e che lo ha fatto, ebbene sì, in base a un progetto. Alcuni teologi odierni ritengono che, per indicare tale espressione di volontà creatrice, il termine «disegno» non sia adatto: sia perché ormai compromesso dall’uso improvvido che ne fanno i fondamentalisti, sia perché eccessivamente debitore nei confronti di un paradigma linguistico legato al pensiero oggettivante e deterministico. Come metafore alternative, sono state proposte quelle di «sogno» o di «visione»: esse includono l’aspetto cognitivo e quello volitivo, all’interno però di un campo semantico meno connotato dal determinismo della tradizione, che nella modernità si è legato a forme di pensiero di tipo cartesiano e dunque strutturalmente deistico. Qualunque sia la metafora scelta per indicare l’azione di Dio, resta il fatto che l’idea di creazione, come la fede la intende, non appare dissociabile da quella di un progetto di Dio: ripeto, non su un altro mondo, ma su questo, quello del Big Bang, del brodo primordiale e degli icneumoni. Anche quando parla di questo mondo, la fede ritiene, del tutto semplicemente, di dire la verità. Distinguere i piani e i linguaggi è dunque cosa buona, assolutamente necessaria e del tutto ragionevole; è il passaggio preliminare per ogni altra affermazione che intrecci il discorso di fede e quello scientifico. Per una posizione agnostica come quella di Gould la sana distinzione dei piani può anche essere sufficiente: non ritengo però che lo sia per la fede cristiana. Per quest’ultima, si pone la domanda: come si rapporta la propria pretesa di dire, con il proprio linguaggio, la verità, con la pretesa identica, sul proprio piano, avanzata dalla scienza? La distinzione dei piani non impedisce l’intersezione, perché il mondo del quale si parla è il medesimo; tale distinzione garantirebbe a priori la reciproca compatibilità solo se fosse intesa come assoluta separazione, ma neppure Gould sostiene questo. La possibilità, dunque, che le affermazioni formulate nei due linguaggi siano, se non assolutamente incompatibili, almeno in forte tensione reciproca, non può essere esclusa in linea di principio.
E come andrebbe interpretata, qualora si verificasse, tale tensione? Sia Gould, sia molti teologi rilevano che una ricerca scientifica correttamente intesa e praticata non potrà mai addurre argomenti risolutivi contro le grandi affermazioni della fede. Ciò è certamente vero e andrebbe costantemente tenuto presente. Lo stesso, però, deve dirsi dell’osservazione ironica formulata da altri, che cioè nemmeno l’inesistenza degli elfi e delle fate potrà mai essere dimostrata dalla scienza la quale ritiene peraltro, non a torto, di non averne alcun bisogno. La forma mentis determinata dai metodi scientifici ha introdotto nella coscienza umana criteri di plausibilità diversi rispetto a quelli egemoni, nella cultura di matrice europea, ancora fino a due secoli e mezzo fa. Non è affatto detto, naturalmente, che la fede cristiana e la teologia debbano semplicemente far propri tali criteri: se però intendono relativizzarli, devono fornire ragioni assai valide, dato l’enorme prestigio culturale del quale gode la visione del mondo plasmata dai metodi e dagli esiti delle scienze della natura. Si tratta, in sintesi, di illustrare con la massima chiarezza possibile la differenza di struttura che sussiste tra la fede in Dio e la credenza nell’esistenza degli elfi e delle fate.
La problematica relativa all’evoluzionismo costituisce, per la teologia, un eccellente test. Ciò che qui accade può essere così riassunto. La fede, confessando Dio creatore, afferma che non solo all’inizio cronologico, ma all’origine ontologica dell’universo e della vita, nel cuore dell’infinitesima particella come nelle inconcepibili distese dello spazio e del tempo, vi è la volontà benevola del Padre di Gesù Cristo. La biologia moderna afferma che, in base a tutto quanto consta, ai dati dell’esperienza e alle teorie che li inquadrano con un accettabile grado di verosimiglianza, non è dato vedere alcun progetto. Come è stato affermato con espressioni celebri: certamente il grande orologio dell’universo biologico conosce un progettista, un orologiaio, che però è cieco, non è cioè un’intelligenza suprema, e la grande dinamica che governa la vita nel suo mutare non è guidata dall’Amore che muove il sole e l’altre stelle, bensì dal caso e dalla necessità. Di questo, cioè dell’impatto della teoria sintetica dell’evoluzione sulla teologia cristiana della creazione, dobbiamo occuparci.
(da F. Ferrario, Il Creatore, il caso e la necessità. La teologia di fronte a Darwin nel XXI secolo, in «Protestantesimo», LXV, n. 1, 2010, pp. 39-41)*
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