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Nel VII secolo il Corano formulò un modello giuridico estremamente progressista per l’epoca. Pure iscritto in un ordine sociale patriarcale, l’Islam andava a garantire alcuni diritti fondamentali alle donne, sebbene nella subordinazione all’uomo: un preciso statuto civile; alcune garanzie matrimoniali (dote, diritto al mantenimento); alcune garanzie economiche (diritto all’eredità, anche se in misura dimezzata rispetto ai maschi in ragione del mantenimento coniugale, divisione dei beni nel matrimonio e diritto alla conservazione e alla gestione autonoma dei propri beni); alcuni diritti coniugali (come il divorzio in caso di mancato mantenimento, maltrattamenti o altro). Nella prassi, i modelli patriarcali prevalenti dall’Albania al Marocco conservarono o svilupparono sistemi che non sempre garantivano alle donne questi diritti, conformandosi alla sharia nella forma, ma non nella sostanza o dando priorità a quei frammenti di Tradizione che potevano giustificare comportamenti sociali reazionari, ignorandone opportunamente altri di segno opposto. L’associazione Islam-patriarcato non è un dato sostanziale, ma una costruzione sociale. Sul piano teorico nulla impediva alle comunità islamizzate di interpretare il Corano in senso progressista invece che in senso ancor più conservatore di quanto indicato nel testo, ad esempio eludendo alcune disposizioni discriminatorie del diritto di famiglia allo stesso modo in cui vennero eluse quelle sull’usura attraverso gli hiyal. Al contrario, in un mondo dominato dagli uomini (padri, mariti, capifamiglia, governanti e giudici), i sotterfugi contro la legge coranica anche per quanto concerneva il diritto matrimoniale, favoriti da qâdî e muftì consenzienti, furono – e continuano a essere – moneta corrente, normalmente a sfavore delle donne. Ad esempio, per una donna è sempre stato estremamente difficile ottenere il divorzio da un marito dissenziente, anche a dispetto della normativa prevista; le donne raramente hanno esercitato il diritto di allegare al contratto matrimoniale clausole a loro tutela; sarebbe anche interessante verificare quante mogli nella storia islamica abbiano chiesto la separazione per insoddisfazione sessuale – caso previsto da alcune scuole sharaitiche.
Le norme sociali di stampo patriarcale hanno talvolta prevalso sulla legge religiosa anche là dove questa era esplicita: in alcune regioni sono state disattese persino le regole successorie, che essendo dettagliatamente descritte nel testo coranico non possono dare luogo ad alcuna ambiguità interpretativa (tanto da non essere sostanzialmente intaccate neppure dalle riforme tunisine e marocchine). Ad esempio, nell’Albania premoderna islamizzata, dominata dal sistema tribale patriarcale, le donne non avevano diritto ad alcuna proprietà né erano incluse nell’asse ereditario, né potevano chiedere il divorzio. Anche in molte regioni del Maghreb le donne erano escluse dall’eredità terriera (…).
Il nostro breve scorcio sui fenomeni di elusione della legge religiosa è fortemente indicativo di alcune dinamiche intrinseche alle società islamizzate. Quello che in ambito giuridico è sempre stato considerato e continua a essere considerato il fulcro della normativa islamica, il diritto di famiglia, nella prassi presenta in alcuni segmenti dell’umma evidenti distorsioni, non occasionali, ma consolidate e strutturali. Sovente la sharia è stata interpretata assecondando i costumi locali, prevalentemente in senso più rigidamente patriarcale di quanto il Corano sancisca, ma anche secondo modelli socioculturali di segno diverso, e le istituzioni religiose sembrano essere state normalmente condiscendenti verso interpretazioni o elusioni della legge favorevoli alla conservazione e alla perpetuazione del costume sociale.
Queste osservazioni aiutano a precisare la nostra definizione di “comunità religiosa musulmana”: le diverse comunità di cui si compone la umma non trovano sempre tutte le loro ragioni nei testi della fede, ma si definiscono attraverso un percorso socialmente costruito. È la comunità a stabilire cosa si deve e non si deve fare, cosa è islamicamente corretto e scorretto, attraverso interpretazioni selettive dei testi, talvolta secondo un orientamento contrario ai dettami religiosi. Si sospetta allora che le resistenze alle politiche riformiste progressiste che fragilizzano oggi il quadro giuridico e istituzionale dei paesi musulmani, forse, non si collochino tanto sul rispetto della legge religiosa, quanto sul mantenimento di modelli sociali che si definiscono islamici, ma che in sostanza difendono valori socioculturali retrivi.
A un’attenta analisi, la norma sociale sembra dunque precedere quella religiosa, mantenendo con quest’ultima un rapporto bivalente. Quando è possibile, essa viene islamizzata (formalmente nei codici di diritto o solo culturalmente quale convinzione collettiva) per sancirne la legittimità, come nel caso dell’infibulazione. Ma quando la norma applicata contraddice palesemente la sharia, come l’esclusione delle donne dall’asse ereditario, essa viene sottaciuta. Come sottolinea Ben Achour, quello che di fatto si configura come un diritto praeter legem o addirittura contra legem non si confessa mai totalmente; non si pone mai in aperta antitesi o in flagrante conflitto con i principi islamici, anche se di fatto li ignora a proprio vantaggio: un dato cruciale del rapporto tra norma e diritto è che la distorsione o l’accantonamento della sharia in favore del costume sociale non giunge mai alla negazione o alla modifica testuale della legge religiosa.
La discrasia tra comportamenti e modelli di riferimento, tra forma e sostanza, che a un osservatore esterno può apparire indice di un modello contraddittorio e incoerente, o piuttosto come una distorsione patologica del sistema, in ambito islamico si configura come un potentissimo elemento di caratterizzazione culturale, con precise funzionalità.
(da B. De Poli, I musulmani del terzo millennio. Laicità e secolarizzazione nel mondo islamico, Roma, Carocci, 2007, pp. 144-147)*
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