Audio integrale
Video integrale
Letto nella sua formulazione più estesa e secondo la traduzione corrente, il precetto del Levitico che comanda l’amore del prossimo suona in questo modo: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18). Non pochi sono i problemi di traduzione e interpretazione del passo. Una prima, classica osservazione è che il verbo ‘ahav («amare») che in ebraico, di norma, regge (come in italiano) l’accusativo, qui comporta una costruzione con il dativo. Ciò ben si collega a una dimensione operativa. Non è comandato un sentimento (rispetto al quale sorgerebbe l’ombra del proverbiale «all’amor non si comanda»): è prescritto un comportamento positivo nei confronti dell’altra persona. In definitiva, l’inizio del verso lo si potrebbe tradurre così: «Porta amore al tuo prossimo»; vale a dire, agisci nei suoi confronti in modo da dar luogo ad atti di amore. Un secondo punto riguarda chi vada considerato come prossimo. Tuttavia qui basti porre in evidenza che il cuore della questione non è soltanto di sapere se all’origine il precetto fosse rivolto soltanto agli altri ebrei o avesse una estensione più ampia. Infatti anche quando prevale questa seconda interpretazione (fatta in genere propria dall’ebraismo più recente) si deve tener conto che colui che ordina è pur sempre il Dio d’Israele. Il verso si chiude con la decisiva clausola: «Io sono il Signore». Anche quando si estende a tutti gli uomini l’amore resta un comando legato a un Dio riconosciuto pienamente come tale solo da un determinato gruppo. Assunta in questa angolatura la logica del precetto rimane immutata pure nel Nuovo Testamento. Amare tutti, anche gli appartenenti ad altri popoli e comunità religiose, in virtù di un comando del proprio Dio, non elimina l’asimmetria tra sé e gli altri. Praticare l’amore del prossimo come precetto significa quindi tenere ben fermo il fondamento dell’ascolto obbediente. È compito dei membri delle comunità religiose che fanno proprio questo comando sia testimoniarne la specificità, sia accettare che altre persone o gruppi abbiano fondamenti differenti per agire reciprocamente in spirito amorevole. (…) «Ama il prossimo come te stesso, io sono il Signore» (Lv 19,18); «Tutto quanto volete che facciano a voi, anche voi fatelo loro: questa è infatti la Legge e i Profeti» (Mt 7,12)», «Non fare agli altri quel che non vorresti che gli altri facciano a te». Questi tre detti potrebbero rispettivamente essere assunti come emblema del precetto, del comandamento e della regola.
Tra questi tre detti vi sono profonde differenze: nel primo caso il fondamento sta nell’ascolto della parola di Dio, nel secondo vi è un rafforzamento reciproco tra voce interiore e rivelazione, nel terzo vi è un necessario richiamo a una costruzione condivisa. In tutti e tre i casi entra comunque in gioco un principio di alterità legato in modo intrinseco alla componente imperativa. L’esistenza di un imperativo sta a indicare che il prendersi cura di se stessi non coincide sic et simpliciter con il prendersi cura degli altri e viceversa. Il comando è formulato perché non è considerato vero quanto, in tutt’altra antropologia e in un diverso contesto culturale, sostiene un antico detto buddhista stando al quale «badando a se stessi si bada agli altri; badando agli altri si bada a se stessi». Principio esemplificato con la bella immagine degli acrobati che, allorché formano una piramide umana, si trovano oggettivamente nelle condizioni di far coincidere la propria tutela con quella degli altri. Lo scarto dell’alterità non comporta questo spontaneo corrispondersi, esso però diviene nel frattempo anche metro di misura del comando.
Nel precetto che impone di amare gli altri come se stessi e nei comandi che prescrivono di fare agli altri quanto si vorrebbe fosse fatto a noi, il peso maggiore riposa sull’azione rivolta nei confronti dell’altro. Ciò vale anche per il non fare. Affermare «tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12) è frase ben diversa da: «Fate agli uomini quanto voi fate a voi stessi». Nella dimensione quotidiana dell’esistenza molti si autodanneggiano, ma il loro senso morale non prende ciò come un criterio di comportamento. Dal canto suo tanto la filologia quanto una corretta comprensione ermeneutica consentono di trascrivere il precetto del Levitico in questi termini: «ama il prossimo tuo, è come te stesso». La Scrittura con queste parole vuole cioè porre in rilievo un’uguaglianza non una misura, tanto più che non si ritrova nessun passo biblico che prescriva di amare se stessi. La valutazione dell’amore sta nel comportamento da assumere verso l’altro: nel tuo agire verso il prossimo devi adottare l’atteggiamento che vorresti che l’altro assumesse verso di te. Per questo motivo si è di fronte a una obbligazione nei confronti delle altre persone e non già a una semplice autolimitazione del proprio egoismo presente nel detto «la mia libertà finisce dove comincia la tua», che altro non è se non una versione morale del principio economico della libera concorrenza.
(da P. Stefani, Si può comandare l’amore?, in Id., a cura di, Amore del prossimo, Brescia, Morcelliana, 2008, pp. 129-131, 139-141)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.