I referenti dei fenomeni studiati dalle scienze umane non possiedono i requisiti di oggettività che vengono attribuiti ad altri referenti scientifici. La follia, ad esempio come ha messo in luce Foucault, non è solo un insieme di sintomi, ma viene costituita attraverso molteplici e differenziate modellizzazioni teoriche e pratiche. Essa è un regime di visibilità realizzato da regole di dicibilità e discorsi che nascono all’interno del sapere, cioè dentro ad un sistema che stabilisce positivamente l’esistenza dei fenomeni. Sulla scia di questa consapevolezza epistemologica si pone questo numero monografico di “Strumenti critici”, dedicato, come recita il titolo, a “Poétique et rhétorique des savoirs dans les sciences humaines”. Per chi è digiuno di queste problematiche i saggi qui raccolti possono essere una prima introduzione. Essi toccano svariati argomenti. Il contributo di Yves Jeanneret (Cybersavoir: fantôme ou avarat de la textualité Questionnement d’une actualité) è incentrato sulla premessa che la fase storica attuale, caratterizzata dalla mutazione dei supporti materiali su cui viaggia la cultura, richieda una riflessione sui processi sociali d’appropriazione delle conoscenze e sulla funzionalità della tecnologia che trasporta informazioni. Alain Deremetz in Lieux et schèmes de l’interpretation dans les sciences de la literature richiama a suo modo, tra le altre cose, il passaggio dall’estetica della creazione, di cui la retorica era uno strumento, all’estetica dell’osservatore (del critico) preoccupato di classificare le opere. Tutti concordano nell’affermare che la cultura è una costruzione poetica e combinatoria organizzata come un testo e ad Alain Dubuisson spetta di definire questa categoria (Presentation e Contributions à une poetiqué de l’oeuvre). Un testo é un artefatto che traduce una situazione polifonica ed eteroglossa in una totalità omogenea e isotropa, la veste di scientificità che esso assume è parziale e giocata sul “rimosso” dei molteplici fattori economici, sociali, accademici e retorici che orientano la sua costruzione. Questa procedura di oggettivazione, vera e propria metafisica del testo che Barthes aveva definito “previlege d’etre” rilevandone la somiglianza con il discorso degli psicotici, come nota Dubuisson consente al testo di offrirci quella stabilità e coerenza che non troviamo nella transitorietà delle cose e nell’inafferrabilità del tempo. Si comprende meglio come la centralità che il “testo” mantiene dentro la nostra cultura sia legata ad un orizzonte riduzionista e ad una politica della visualizzazione; ma alla prova dell’esperienza non tutto può essere ridotto ad apparenza come la media delle scienze umane stenta a comprendere.