Dies Irae. Immagini della fine


Il giorno del giudizio universale, il dies irae, ha dato vita a una straordinaria storia degli effetti, i cui echi hanno caratterizzato la musica, l’arte, la letteratura e ha impegnato i teologi in un inesausto lavoro di interpretazione. Della storia degli effetti del dies irae si fa carico questo volume che esplora alcuni “grandi luoghi” biblici (Qohèlet, Giobbe, Esodo, Apocalisse) alla ricerca delle immagini della fine: un concetto, questo, inevitabilmente legato a quello del giudizio e alla difficoltà di separare, entro la coscienza individuale, il bene dal male. Punto di partenza dell’analisi di Stefani è il libro di Qohèlet, intimamente caratterizzato dal termine hevel (vanitas), che costringe il lettore a osservare le cose dal punto di vista della loro finitezza. Nelle pagine di quel libro non vi sono simboli di morte, ma prevale l’affermazione che il culmine della sapienza umana risieda nella capacità di guardare le cose dal punto di vista del loro venir meno. Nessuna redenzione è degna di tale nome, ci indicano le pagine di Qohèlet, se si rifiuta di prendere cura di un’esistenza umana “in cui qualche tenace frammento di gioia galleggia su un mare di dolore e precarietà” (pag. 51). La sensibilità moderna stenta invece a trovare un equilibrio tra la gioia della vita e la consapevolezza che tutto è destinato a svanire. La Bibbia ci parla della vita osservata nel suo declinare, della sofferenza delle persone integre (come Giobbe) e del coinvolgimento di Dio: la salvezza escatologica e la resurrezione dei morti sono l’espressione massima della fiducia di Dio nelle sue creature. L’immagine del Giudizio universale è dotata di una grande pregnanza (testimoniata anche dal perenne fascino esercitato dal dipinto di Michelangelo) soprattutto perché, sfuggendo alla dimensione della pura massificazione, essa costituisce il luogo in cui la convocazione di tutti porta al culmine la responsabilità di ogni individuo. Il vero significato delle proprie azioni, in un orizzonte che parli di salvezza e non soltanto di comportamenti e di etica, lo si coglie di fronte a un giudizio trascendente che soltanto alla fine rende consapevoli di come ognuno si sia comportato nei confronti del prossimo. La resurrezione dei morti è anche la più decisa smentita di una fine intesa come ritorno all’origine: è il “nuovo” assoluto e al tempo stesso è la salvaguardia di un’identità irripetibile. Non a caso, nella prospettiva apocalittica descritta da san Paolo la precarietà di ogni essere vivente sfocia nella speranza di una trasformazione universale e diventa occasione di comunione all’interno dell’attesa di una redenzione per tutti.

Dati aggiuntivi

Anno pubblicazione 2001
Recensito da
Anno recensione 2002
Comune Bologna
Pagine 220
Editore