Il nichilismo giuridico è caratterizzato da un’incessante produzione e consumo di norme che perseguono singoli scopi, rifiutano ogni appello all’unità e si consegnano al volere umano. Questo, sostiene Irti, è il destino del diritto del nostro tempo: un diritto aggrappato a principi intramondani (spirito del popolo, idealizzazione dello stato nazionale) che si rivelano criteri effimeri, proiezioni di una volontà in cerca di appoggio stabile e concreto. Il vorticoso succedersi delle norme giuridiche attesta la nientità del diritto, che risponde soltanto alla domanda sulla validità, cioè sul produttivo funzionamento delle procedure. La produzione è diventata infatti l’essenza propria del nichilismo, perché il diritto non è più considerato in base ai suoi contenuti di disciplina, ma alla funzionalità delle procedure produttrici che, al pari di catene di montaggio, sono indifferenti ai contenuti. La fine di ogni dualismo (teologico, naturalistico, razionalistico) nel campo del diritto, continua l’autore, ha determinato l’affermarsi del culto della forma: nichilismo e formalismo – i due costituenti della modernità giuridica – sono stretti da un’intima fraternità. Contro le false unità, il diritto percorre allora le strade del molteplice, del frammentario, dell’inesauribile differenza. Accanto a questi elementi, Irti evidenzia tra i segni del nichilismo la quantificabilità di tutti i rapporti: i singoli rapporti vengono degradati a elementi di calcolo, a grandezze misurabili e dunque indifferenziate e fungibili. La violenza manipolatrice richiesta da questo processo fa sì che la legge sia ormai priva di giustificazione: ciò che conta è il successo, l’accadere di un fatto in quanto fatto. Soltanto un principio più alto del divenire, sovrastante la casualità del volere, sarebbe in grado di sottrarre le norme all’oscillazione tra l’essere e il niente. Gli uomini però si sono liberati dal dominio di diritti ultraterreni e perciò soggiacciono al dominio di un casuale fluttuare. Dal nichilismo normativo il giurista non può uscire. Questo significa che egli ha dinanzi a sé la discorde molteplicità delle norme, la casualità delle decisioni politiche, un denso impasto irriducibile ad unità di scopo. Si profilano pertanto due ordini di scopi entro i quali, sostiene Irti, le volontà politico-giuridiche devono scegliere: da un lato l’oggettiva funzionalità del mercato, espressa in un diritto indifferenziato fatto solo di spazi astratti e illimitati, raggiungendo così il più alto grado di razionalità tecnica e di oggettiva calcolabilità; dall’altro lato il diritto protettivo delle differenze, in cui l’identità è centrale e gli individui sono in grado di far valere con fermezza le proprie scelte.