Definito da Weinrich stesso, nella sua postfazione, «il manifesto nascosto della linguistica testuale», questo libro, scritto nel 1966, può essere considerato un lavoro pionieristico, dato che si è assunto il compito di «testare l'idoneità della neonata linguistica su un oggetto allora fuori dal raggio tradizionale di un'indagine sulla lingua: la bugia». L'originalità di questa ricerca, che si sviluppa attraverso innumerevoli citazioni tratte dalla letteratura, dalla filosofia e in alcuni casi anche dalla storia politica, consiste non solo in questo approccio interdisciplinare, ma nella sua decisione di verificare i metodi linguistici e i propri risultati scientifici nell'ambito della «lingua in uso», scritta e parlata. La difesa che Weinrich qui intraprende delle parole e della loro "verità" parte da questa domanda: la lingua è un vestito o un travestimento del pensiero? Siamo noi che usiamo la lingua, di per sé "innocente", per mentire oppure è la lingua che mente e che quindi induce anche il nostro pensiero a mentire? Per rispondere Weinrich analizza «la bugia come tema linguistico» e indaga con quali mezzi linguistici è possibile mentire, chiedendosi se essi siano responsabili della bugia oppure siano condizionati dall'uso che noi ne facciamo. Si può mentire con la semantica o con la sintassi, vale a dire con le parole o con le frasi. Le parole isolate, che hanno un significato vago e astratto, non esistono però nella lingua in uso: sono sempre utilizzate in determinate situazioni e, dunque, sono sempre inserite in frasi che le contestualizzano e determinano così il loro significato circoscritto e preciso. Non possono quindi essere le parole a mentire e ad alterare il nostro pensiero. Nel passaggio («determinazione») dal significato lessicale (della parola isolata) al significato testuale (della parola in una frase, in un testo) si compie la trasformazione delle parole in concetti, ovvero in parole definite da un contesto, «parole nel testo», parole che fanno parte di un sistema concettuale e sono collocabili in un'ideologia. Se questa ideologia mente, dice Weinrich, anche i concetti mentono. Se dietro una frase (falsa) pronunciata si cela una frase (vera) non espressa che significa l'opposto, vuol dire che il pensiero ha falsato la situazione comunicativa in cui linguaggio e mondo si incontrano. La menzogna è dunque di natura sintattica, non semantica, perché non sono le parole a mentire, ma il nostro pensiero che, con le parole, formula le frasi. È pertanto vera l'intuizione agostiniana secondo la quale è l'intenzione, la nostra intenzione, che, attraverso non le parole ma solo i concetti, mente e induce a mentire noi che «non siamo schiavi delle parole perché siamo padroni dei testi».