Con questo libro Giovanna Fiume ci introduce nella complessa realtà della guerra da corsa e della pirateria in area mediterranea durante l’età moderna. All’origine dell’indagine storiografica, basata su ricche fonti documentarie, l’autrice pone come premessa generale l’irriducibilità del fenomeno studiato a qualsiasi spiegazione di tipo universale o riduzionista. Basti soltanto pensare alle diverse caratteristiche che segnano la schiavitù mediterranea: le condizioni del prigioniero di guerra e dello schiavo, infatti, si combinano nella figura del captivus, caduto in mano al nemico e ridotto in schiavitù. Ciò comporta almeno quattro costanti riscontrabili in buona parte delle fonti analizzate: anzitutto la reciprocità (europei cristiani catturano e riducono in schiavitù nordafricani e turchi musulmani, e viceversa); la temporaneità (i captivi possono essere riscattati dopo un certo tempo); la creazione di una rete finanziaria costituita da mercanti e negoziatori interessati a speculare sul riscatto; la reiteratività (si può cadere più di una volta in cattività). D’altra parte, non meno peculiare risulta il processo di integrazione dello schiavo nel nuovo contesto: ciò avviene quasi sempre attraverso l’abiura della propria religione e l’adesione a quella del paese ospitante, ma comporta "strumenti" di manomissione dell’identità dello schiavo quali la spersonalizzazione (il suo divenire oggetto, merce), la desocializzazione (in quanto "straniero assoluto"), la negazione della parentela (con il divieto di sposarsi e di avere figli), la desessualizzazione (poiché viene spogliato delle nozioni culturali di mascolinità o femminilità) e, conseguenza ancor più grave, la sua decivilizzazione, intesa come dipendenza esclusiva dal padrone e completa alienazione rispetto all’insieme della collettività. Le fonti permettono di ricostruire il contesto in modo assai dettagliato: gli schiavi lamentano nelle lettere inviate ai familiari la condizione della loro schiavitù; i redentori, soprattutto uomini religiosi incaricati del riscatto, fanno altrettanto, dipingendo le società maghrebine (le reggenze barbaresche e il regno del Marocco) in maniera accurata, quasi sociologica. Dagli interrogatori svolti dal Collegio del Santo Tribunale per ottenere l’abiura da parte di coloro che tornano in Occidente dopo essere stati schiavi in territorio musulmano, emerge una serie di credenze miste a cavallo tra cristianesimo e islam, con le quali risulta chiaro come la stessa conversione fosse un modo praticabile di adattarsi a realtà sociali che le circostanze della vita imponevano. Inoltre il quadro geografico è molto ampio e giunge ovunque si confrontino le religioni del Libro, quelle che possono definirsi "religioni di conversione", se la nozione di conversione e il suo opposto, l’apostasia, sono determinate (come insegna Jack Goody) in funzione delle frontiere definite dalla parola scritta. Il libro si chiude infine con uno studio dell’evangelizzazione degli schiavi, che ha come risultato eclatante la canonizzazione di santi neri (Antonio Etiope, Benedetto il Moro) e che si spinge sino in terra africana, dove spicca la vicenda del martirio di Juan de Prado, mettendo in luce inediti aspetti del ruolo politico dell’attività missionaria degli ordini religiosi nel regno del Marocco.