Finalmente un libro di alta filosofia scritto in una lingua italiana così bella e pulita che il concetto è messo a lucido fino al punto che una riflessione ardua e condotta sul filo del rasoio teoretico, pur parlando del male, apre al bene. Tanto può la bellezza di una parola riconciliata con il pensiero. Tutta questa chiarezza nella profondità è frutto di uno scavo filosofico che Simona Forti conduce da tempo anche grazie al confronto con autori come Hannah Arendt, di cui è una delle principali interpreti in Italia e non solo. Questo libro nasce da un’urgenza etica, l’obbligo di non smettere di parlare del male politico. Il nesso con il potere è dunque al centro di una riflessione che affonda le proprie radici nella filosofia dell’Ottocento e nella progressiva secolarizzazione di presupposti teologici vanificanti ogni precedente teodicea, anche laica.
La svolta epistemologica ebbe luogo in forma non filosofica, ma letteraria, attorno agli anni Settanta del secolo XIX, con la pubblicazione del romanzo I demoni di Dostoevskij. L’«abissale immaginazione» dello scrittore russo mise in scena personaggi che hanno dato forma ed espressione imperituri allo spettro del nichilismo, ossia quell’ultima epoca dell’umanità in cui il Niente prende il posto di Dio, «quel posto che era già stato usurpato dall’uomo, divinizzato dall’ottimismo positivista» (p. 4). Legittimo tradurre in categorie filosofiche le finzioni letterarie dostoevskiane, così penetranti e lungimiranti da rendere sensato parlare di un "paradigma Dostoevskij", secondo cui la questione del male è da pensarsi come indissolubilmente legata al problema del nichilismo. Lo scrittore russo ha esplicitato ciò che Kant non osò pensare, ma solo evocare, e che Schelling aveva invece reso possibile: la libertà della volontà che può anche volere il male, può scegliere il nulla, l’annientamento, il caos. Ecco la malvagità svincolata e tetragona rispetto a ogni giustificazione razionalistica.
Reso distinguibile dal male fisico e da quello metafisico, il male morale acquista una sua autonomia filosofica con la riflessione kantiana e la domanda che si erge non è più tanto "da dove viene il male?", quanto piuttosto "perché commettiamo il male?". Con Kant il male non è altro che un eccesso dell’autoaffermazione, una passione smodata per il proprio sé. Nonostante ciò l’uomo kantiano non può desiderare il male in quanto tale, non può volere il male sapendo che è male, non può ribellarsi per amore della ribellione, che è esattamente ciò che fanno i demoni dostoevskiani. Il male radicale è sia una "malattia della ragione", sia una "patologia del sentire". Il problema ontologico di Schelling investe la pretesa del finito di elevarsi ad infinito. Dostoevskij dà forza espressiva ineguagliabile a questo delirio di libertà, desiderio di sfondare ogni limite e ogni fondamento per asserire la possibilità dell’uomo-Dio. Il personaggio di Stavrogin, incarnazione del nichilismo compiuto, fa il male, produce sofferenza e dolore senza la minima traccia di interesse personale e, infine, senza nemmeno provare una qualche forma di piacere, pur pervertito che sia. L’indifferenza al bene e al male: questa l’essenza del male radicale impersonato dal protagonista del romanzo dostoevskiano. L’abbandono dell’essere per il nulla, l’«odio ontologico» è la radice metafisica della malvagità, non più semplice eccesso di egoistico amor di sé ma volontà di negazione e distruzione del creato, dell’essere in quanto "è". Farsi Dio vorrebbe dire essere causa sui e libertà autofondata, capacità illimitata di creazione ex nihilo. Per una "ipertrofia della ragione" la volontà scivola nel delirio di onnipotenza, ma l’unica potenza che può e sa esprimere è quella della distruzione dello stesso creato in cui si appalesa l’esistenza di Dio, secondo il credo cristiano.
Riconosciuta la grandiosità dello schema interpretativo dostoevskiano entro il quale si è reso pensabile il male (in triangolazione, cioè, con nichilismo e potere), Simona Forti ritiene indispensabile uscire dalla unilateralità di quell’impostazione per comprendere il nesso tra male e potere nel nostro contesto attuale. Muovendosi tra Nietzsche, Freud, Heidegger, Lévinas, Foucault e gli scrittori del dissenso anticomunista mitteleuropeo, quali Jan Patočka, Vàclav Havel e Milan Kundera, l’Autrice tenta un’ambiziosa ma persuasiva genealogia alternativa per un nuovo modo di pensare criticamente la presenza del male e dunque rispondere alle sue relative fenomenologie, in cui la nostra contemporaneità rischia di rimanere ammutolita e attanagliata. Le pagine finali hanno il pregio di muoversi oltre l’orizzonte ristretto del post-strutturalismo, che individua in ogni processo di soggettivazione una qualche forma di assoggettamento, e senza recuperi normativistici: rielaborando spunti anche foucaultiani si propone una revisione intelligente del concetto arendtiano di "banalità del male". Viene in aiuto dell’Autrice l’opera di Primo Levi, in particolare I sommersi e i salvati, riflessione sofferta e inquietante sulla "normalità" del male. Nessuna concezione demonologica né sostanzialistica del potere, piuttosto un’indagine microfisica della natura sempiterna delle relazioni di potere, fondate su dinamiche mobili dove a pervertire ogni morale è un’accanita volontà di sopravvivenza. E in ciò le riflessioni dello scrittore sopravvissuto ad Auschwitz si intersecano proficuamente con quelle di Elias Canetti e la convinzione di questi che «la situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere». Sarà dunque cercando di far coincidere vita vissuta ed etica enunciata che ciascuno di noi potrà realisticamente opporre un freno al male dell’eccesso di potere; modificando, nelle pratiche quotidiane, intenzioni e modalità delle volubili e vulnerabili relazioni e interazioni tra soggetti sempre "umani, troppo umani".