A distanza di dieci anni dall’edizione italiana del fondamentale La religione dei romani (Einaudi 2004), la traduzione delle opere di Jörg Rüpke, tra i più eminenti studiosi europei di storia della religione romana, ha recentemente conosciuto un’importante ripresa: prima con Tra Giove e Cristo. Trasformazioni religiose nell’impero romano (Morcelliana 2013), poi con Il crocevia del mito. Religione e narrazione nel mondo antico (EDB 2014) e ora con quest’ultimo volume Superstitio.
Il mondo greco e romano riconoscevano nella superstizione – deisidaimonias e superstitio – il timore eccessivo nei confronti degli dèi. Il superstizioso eccede nei rituali, insiste nella loro ripetizione, regola ogni momento della propria vita quotidiana a partire dal timore dell’intervento divino, così diventando vittima di ciarlatani e oggetto di ridicolo. Nelle prime pagine del suo lavoro Rüpke cita un ampio passo dai Caratteri di Teofrasto: «La superstizione parrebbe essere codardia nei confronti della divinità, e il superstizioso un tale che, incontrando casualmente un corteo funebre, si lava le mani, si spruzza con acqua lustrale e va poi in giro tutto il giorno con una foglia di alloro in bocca. E se una donnola gli attraversa la strada, non prosegue finché qualcun altro non gli sia passato avanti o finché egli stesso non abbia lanciato tre pietre lungo il tracciato, oltre il cammino. (…) Se un topo gli ha rosicchiato un sacco di farina, si reca dall’indovino che interpreta i segni e chiede cosa deve fare. Nel caso in cui gli risponda che dovrebbe portare il sacco a far rammendare da un artigiano che lavora la pelle, non si dà pace finché, tornato indietro, non compie un sacrificio propiziatorio» (pp. 16-17).
La questione in gioco nelle pagine di Rüpke è però molto più ampia e complessa di quanto potrebbe apparire riferendosi semplicemente alla fenomenologia antica della superstizione. Rüpke prende infatti in esame un lungo tratto della storia romana – dal I sec. a.C. al IV d.C. – per cogliere i profondi e rilevanti mutamenti che si producono non solo nella "religione romana" in quanto tale, ma nell’idea stessa di religione. Il punto di partenza è dato dalla constatazione della sostanziale secolarità del diritto romano almeno fino al I sec. a.C.: un diritto che «acquisisce il suo potenziale utilizzando luoghi argomentativi che rimangono estranei alle rivendicazioni di un culto da parte di nuove o vecchie divinità» (p. 23). Il processo di trasformazione inizia a manifestarsi nel momento in cui il diritto e la letteratura cominciano a occuparsi della devianza religiosa attraverso la sua manifestazione più evidente: la superstizione. Cicerone e Varrone, secondo Rüpke, «non mettono in primo piano la necessità di delimitare i confini di una tradizione romana quanto piuttosto quella di tutelare la sua preservazione. Questa strategia è meramente di natura intellettualistica: la religione viene riformulata come sapere» (p. 92). In altre parole, è proprio perché la religione romana si manifesta come dinamica e mutevole che, secondo Cicerone e Varrone, necessita di forme di normalizzazione e di delimitazione secondo la tradizione. Inoltre, è importante sottolinearlo, tali trasformazioni non appartengono soltanto a nuovi gruppi o "religioni" che fanno il loro ingresso nella società romana: il superstizioso è soprattutto il segnale di una devianza individuale: è nella devianza rappresentata dalla superstizione che emerge una forma di individualità fino allora assente nel mondo romano. Ciò è confermato da due linee di sviluppo parallele e intersecantesi. La prima è quella della concezione della religione come sapere. Se nel tentativo di normalizzazione di Cicerone e Varrone ciò significa delimitare le pratiche religiose del presente a quanto tramandato dalla tradizione, e pertanto di competenza degli specialisti della religione (i sacerdoti e i magistrati), è altresì vero che la devianza si manifesta proprio come forma di sapere nella magia e nella divinazione (entrambe proibite proprio perché forme di conoscenza ritenute in grado di influire sulla vita degli uomini e della politica). Si tratta di un lungo percorso che si concluderà con la trasformazione della religione in un sapere che non sarà più riservato agli specialisti, ma sarà disponibile solamente per coloro che avranno fede. È così che la credulitas del superstizioso si trasformerà nella fede del cristiano, la fede si trasformerà in una conoscenza privilegiata non accessibile ai non credenti e la criminalizzazione della superstizione, tra II e IV sec. d.C., identificherà la religione degli "altri" e l’eresia.
La seconda linea di sviluppo è quella dell’individualizzazione dell’esperienza religiosa – la scelta delle pratiche non tradizionali è essenzialmente individuale – e della nascita di una nuova concezione di religione che, soltanto a partire da questo momento, consente di parlare con più proprietà di "esperienza religiosa". La religione che viene così delineandosi riesce a guadagnare uno spazio proprio, che non è più quello pubblico e non è nemmeno quello privato: «La crescente de-politicizzazione dello spazio pubblico, che emerge in modo particolarmente evidente nelle città di nuova fondazione dell’Impero romano, contribuisce a promuovere una "privatizzazione" della religione. Questo spazio (…) non è tuttavia incluso nella dicotomia concettuale di "pubblico" e "privato". Esso è un "campo" religioso in espansione, che possiede una grande visibilità senza essere "pubblico" in un senso amministrativo e che può scaturire da una molteplicità di ambiti differenti» (p. 96). L’esperienza personale dell’individuo, pur acquisendo un ruolo sempre più centrale, non entra pertanto in conflitto con il nucleo concettuale della religione "pubblica" e le riflessioni contenute, per esempio, nelle opere biografiche e autobiografiche, mostrano come la religione «assuma le caratteristiche di una qualità individuale atta a dimostrare – insieme con l’individualità – che il processo di socializzazione si è compiuto» (p. 100).
In altri termini, il processo di concettualizzazione che prende le mosse a partire dal I sec. a.C. porta alla luce come, accanto alla religione pubblica romana, si venga a definire una nuova forma di religione, caratterizzata dall’esperienza individuale e, in parte, privata. È un’efficace rappresentazione delle dinamiche di trasformazione che coinvolgono il mondo antico nel suo complesso e che illustrano come, nel nostro caso, il processo di individualizzazione dell’esperienza sociale e religiosa non possa essere considerato come un corpo estraneo introdotto ex abrupto dal cristianesimo nel mondo romano, ma il risultato di una lunga trasformazione, risultato di secoli di interazione tra tutte le forme religiose del mondo antico, tra le quali la religione civile romana, la religione greca, i culti orientali e misterici, la religione egizia, l’ebraismo e il cristianesimo.