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Tra i grandi temi in discussione nell’Atene del V secolo vi furono senza dubbio la giustizia e la legge. Non si trattava evidentemente di una novità assoluta, visto che questo problema, in tutte le sue ramificazioni, è da sempre stato al centro della riflessione degli esseri umani: limitandosi al mondo greco, bastano i casi di pensatori e poeti come Esiodo o Solone per sottolineare l’importanza e l’antichità del problema. Ma rimane comunque un fatto degno di nota che della giustizia, della sua origine e della sua natura, della sua forza e dei suoi limiti, si discusse con particolare vigore proprio nell’Atene del V secolo, in un confronto che, scavalcando le distinzioni di genere, ha impegnato accanto e insieme ai filosofi, ai tragici e ai comici, gli storici e i retori. Che questo sia stato un periodo particolarmente sensibile per simili discussioni si spiega naturalmente per diverse ragioni: un ruolo importantissimo fu evidentemente giocato dalla nuova forma di governo democratica che aveva posto al centro dell’attenzione la dimensione politica dell’esperienza umana. Ma accanto ai fattori storici non bisogna trascurare l’eventuale influenza di motivi più propriamente concettuali: una causa possibile dell’interesse suscitato dal tema della giustizia (e della legge) va rintracciata nel fatto che in questo periodo iniziò a circolare una nuova idea di giustizia, che permetteva di affrontare vecchi problemi in modi nuovi. Se nei secoli precedenti era stata opinione condivisa che la giustizia fosse qualcosa di divino e comunque garantita dagli dèi, nel V secolo guadagna importanza crescente l’idea che la giustizia (e con lei la legge) sia invece ciò che distingue propriamente gli uomini. […] Tra gli altri è probabilmente Protagora colui che meglio esemplifica l’importanza e la novità di questa tesi. Secondo la testimonianza platonica del Teeteto, sua è la prima attestazione di una teoria che sarebbe poi stata conosciuta come positivismo giuridico: giustizia è ciò che viene stabilito dalle leggi. Come la verità è sempre relativa e molteplice, così anche la giustizia non consiste nell’adeguamento a qualcosa di assoluto e immodificabile, ma dipende al contrario dalla contingenza delle situazioni ed è di conseguenza mutevole: la giustizia è insomma il complesso di regole che gli uomini stabiliscono insieme, è il risultato di quello che gli uomini di volta in volta decidono stabilendo leggi per tutelare il proprio interesse collettivo e rendere possibile la vita in comune; è sì il valore fondante di una comunità, ma è pur sempre il frutto della storia: sono gli uomini che decidono cosa è giusto e cosa è ingiusto in vista del loro utile. […] Un’ulteriore conferma dell’interesse e dell’importanza di questa tesi sono le reazioni che essa produsse: in particolare penso a una serie di pensatori che potrebbero essere raggruppati sotto l’etichetta moderna del realismo politico, come Trasimaco, Tucidide e Antifonte. Per loro la determinazione della giustizia non è il risultato di una scelta condivisa, bensì di quello che chi si trova in posizione di forza ha imposto agli altri. Se quello che conta è l’interesse, la realtà mostra che ciò che è in grado di procurarlo con maggior efficacia è la forza, il potere. E questo modifica tutto. Perché se rimane vero che la giustizia è legata all’utile, risulta che l’utile non è quello della collettività: è l’interesse di chi detiene il potere. Viene così meno la possibilità stessa di una comunità coesa e armonica: letteralmente non c’è comunità, perché niente è davvero in comune; quello che noi intendiamo come comunità è semplicemente una certa organizzazione dei rapporti di forza.
(da M. Bonazzi, La necessità del potere. Politica e antropologia nel dibattito ateniese del V secolo a.C., in AA.VV., La giustizia dei Greci tra riflessione filosofica e prassi giudiziaria, Milano, Vita e Pensiero, 2013, pp. 11-21)*
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