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Alla «scoperta del continente storia», ben prima di Hegel e Marx, contribuì nell’Encyclopédie l’intelligenza di un interlocutore e contradditore di Voltaire: Jean-Jacques Rousseau, autore dell’articolo Economia. La visione rousseauiana della storia mostra dei lati in comune con quella di Voltaire, ma prevalgono divergenze profonde che saranno all’origine del conflitto tra l’autore del Contratto sociale (1762) e i philosophes. L’ispirazione repubblicana che guida l’ideale politico di governo porta entrambi i pensatori a valorizzare i principi del diritto razionale, in difesa dell’abolizione delle distinzioni tra nobili e plebei, che perpetuano la distinzione tra padroni e schiavi, in quanto tutti gli uomini sono nati, per natura, eguali; entrambi sono avversari delle «sètte», ritenute fattori di divisione del corpo sociale e di impedimento al corretto esercizio di una «volontà generale che tende sempre alla conservazione e al benessere del tutto e di ciascuna parte». Il motivo di divergenza verte intorno al ruolo delle passioni, nella dinamica della storia dei popoli e della civiltà. Secondo Rousseau, le arti e le scienze sono il frutto e insieme il fomite di una corruzione storica progressiva dell’umanità in virtù della quale l’uomo, in quanto soggetto libero, nella misura in cui s’è allontanato dall’originario stato di natura, è andato anche allontanandosi da una condizione di “virtù” e, insieme, di “felicità” che le arti hanno oscurato in nome del progresso razionale. Le arti e le scienze sono nate dalle passioni degli uomini e queste sono cattive. L’astronomia è nata dalla paura; la geometria dall’avarizia; la fisica dalla vana curiosità; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione e dalla menzogna; e la stessa morale, somma arte liberale, è il prodotto dell’orgoglio umano. Il Discorso sulle scienze e le arti (1751) di Rousseau, pubblicato lo stesso anno dell’Encyclopédie, è un unico atto d’accusa al progresso della razionalità e della civilizzazione occidentali. In una parola: un j’accuse rivolto al progetto stesso dell’Encyclopédie. […] L’ideale dell’uomo virtuoso è da cercare, secondo Rousseau, nel «buon selvaggio», dedito alla vita dei campi, la cui esistenza è tutt’uno con quella della propria comunità sociale. Esempio di comunità virtuosa è il regime dell’antica Sparta: il senso dell’onore, l’amore naturale della patria e il coraggio indefesso sono tratti che testimoniano la presenza di una religiosità civile e morale che gli uomini moderni avrebbero smarrito, proprio a causa dei Lumi. La risposta di Voltaire, nel Saggio sui costumi, non si fece attendere. Gli Spartani – tanto ammirati da Rousseau – come gli Uroni, gli Ottentotti e altri popoli ingiustamente reputati “selvaggi” o non dotati di politesse (urbanità), sono sì superiori a noi, ma per la ragione contraria a quella pretesa da Rousseau: per un senso molto sviluppato della civiltà, in quanto dispongono, anzitutto, dell’«arte di fabbricare da soli quello di cui hanno bisogno». Sono più “liberi” in quanto dotati di un “amor proprio”, di un “orgoglio”, di un senso della giustizia – cioè di passioni naturali tipici di veri sovrani, e cioè di una cultura e di una civiltà già molto avanzate. È appunto in quanto hanno saputo ordinare secondo ragione le proprie passioni che questi popoli non sono selvaggi e, soprattutto, non lo sono nel senso in cui l’intende Rousseau. I veri “selvaggi”, secondo Voltaire, sono la nostra populace (la plebaglia) europea, i nostri rozzi cittadini proni a ogni sorta di sopruso e di violenza, asserviti alla terra, sottomessi a «gabelle e imposte che li privano di ciò che hanno guadagnato con il sudore della loro fronte», istupiditi da una morale che insegna loro la non resistenza al male, l’obbedienza, la sottomissione a qualsiasi genere di ingiustizia.
(da P. Quintili, Illuminismo ed Enciclopedia, Roma, Carocci, 2005, pp. 119-123)*
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