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A partire dalla metà del secolo XI, la robusta tradizione del «primato d’onore» (occidentale) del vescovo di Roma si trasforma in superiorità dottrinale e giuridica su tutta la cristianità, anche se di fatto essa si eserciterà in prevalenza sulle aree di cristianizzazione più o meno recente coincidenti con l’ambito geografico che oggi usiamo denominare Europa occidentale. In primo luogo, la Chiesa occidentale produce strutture territoriali di identica ispirazione e di omologa realizzazione: regioni metropolitane o arcidiocesi, diocesi, pievi, parrocchie. Il cristianesimo definisce un’organizzazione secondo suddivisioni spaziali, alle quali corrispondono specifiche competenze sacramentali e disciplinari. Fattori di complicazione non mancano, per esempio, per la consistente presenza così di monasteri e canoniche regolari «esenti» – cioè non sottoposti al potere dei vescovi – come di chiese variamente collegate a poteri autonomi. Ma la Chiesa occidentale è eminentemente una chiesa sacerdotale, vale a dire episcopale poiché i vescovi sono considerati in possesso della pienezza del sacerdozio. Su tale fondamento si inseriscono i processi di esaltazione del papato romano, identificato come vertice di un ordinamento ecclesiologico ed ecclesiastico, definibile come monarchia pontificia. Ma si badi: al vescovo di Roma verrà riconosciuto un diritto universale di intervento, una «pienezza di poteri» che non sarà limitata al corpo della Chiesa, ma si estenderà, in modo giudicato legittimo, a ogni e qualsiasi aspetto dell’esistenza e della convivenza degli uomini e delle donne, in quanto membri «battezzati» della christianitas. La monarchia pontificia si farà ierocrazia – ideologia del potere esercitato da una casta sacerdotale – inducendo fenomeni di aspra concorrenza da parte dei detentori «laici» del potere pubblico: concorrenza conflittuale che, in particolare, logorerà papato e impero nel corso di una lotta secolare tra loro, senza che o l’uno o l’altro riesca a prevalere in modo definitivo e totale. Monarchia pontificia significa ancora costruzione di una «curia» fatta di organismi centrali e di una «burocrazia» in grado di intervenire con efficacia in ogni parte della christianitas e, nel contempo, sviluppo di un pensiero giuridico e di un’attività normativa – riassumibili nell’espressione «diritto canonico» – capaci di dare fondamento di legittimità al potere pontificio e di far funzionare in modo regolato le istituzioni di Chiesa. In secondo luogo, nei secoli qui considerati avviene una larga omogeneizzazione, se non proprio unificazione, di riti e liturgie. È il primo piano dell’unità culturale che si realizza in ambito sia elitario sia «popolare». Non si sottolineeranno mai troppo i fenomeni di circolazione «orizzontale» della cultura scritta e degli «intellettuali»: fenomeni che raggiungono il loro culmine con la creazione di istituzioni originali quali gli Studia, le Università. Vi è pure un’intensa circolarità «verticale» della cultura secondo una duplice direzione, dall’alto verso il basso e viceversa. Le elaborazioni «religiose» delle élites chiericali attraverso la predicazione, la liturgia, la cura d’anime, la ritualità, l’iconografia, l’architettura, si trasmettono e pervengono a ogni livello sociale. Per contro, il patrimonio delle tradizioni folkloriche, quando non venga affatto respinto e annichilito, si incontra con il pensiero «colto», che lo metabolizza e lo riutilizza a proprio arricchimento, non raramente riproponendolo in forme cristianizzate. Se queste sono alcune linee lungo le quali è possibile cogliere taluni dei caratteri principali del cristianesimo occidentale – per cui è spesso difficilissimo, se non impossibile, distinguere la storia del cristianesimo e della Chiesa dalla più generale storia culturale, sociale, politica, economica –, non si deve dimenticare quanto ricche si facciano le sperimentazioni religiose a partire dal secolo XI, proprio in corrispondenza con i processi di centralizzazione e di burocratizzazione del corpo ecclesiastico: sperimentazioni religiose che a volte non giungono nemmeno a consolidarsi e assai spesso si pongono in singolare contrasto con la volontà di inquadramento dei fedeli (e della società) da parte delle gerarchie di Chiesa. (…) Nel secolo XI emergono nuovi protagonisti, armati e disarmati, e una particolare e diffusa attenzione verso i modelli di vita apostolica e verso l’ideale della povertà evangelica. Mentre il vertice ecclesiastico è impegnato a irrobustirsi e a organizzarsi per un più efficace governo, al centro e alla periferia, della cristianità, il monachesimo di ispirazione altomedievale viene affiancato da proposte e iniziative più dinamiche e aperte ad apporti di nuovi strati sociali e a una rinnovata sensibilità nei confronti della condizione umana, anche nelle sue manifestazioni marginali e dolenti. Gli ambienti laicali sono attratti dalla vita monastica e dai suoi valori soteriologici, contribuendo a mettere in crisi le strutture concettuali e istituzionali attraverso cui nel passato si era inteso, e nel presente si intendeva, inquadrare i comportamenti religiosi delle popolazioni. Benché la riflessione canonistica e teologica cercasse di fissare una netta distinzione – che si affiancava, senza contrapporsi, all’ideologia sociale dei «tre ordini» (oratores, bellatores, laboratores) – tra «genere dei chierici [genus clericorum]» e «genere dei laici [genus laicorum]», al primo riservando tutto quanto concerneva la salvezza delle anime, molte sono le forme di concorrenza provenienti dal mondo laicale: si tratti della tradizionale funzione del «regno» nella guida del popolo di Dio; si tratti di «convertiti» che nelle proprie scelte di povertà volontaria trovano la ragione legittimante il diritto all’annuncio della «buona novella» e a una più personale esperienza cristiana e un più diretto rapporto con il divino.
(da G.G. Merlo, Il cristianesimo medievale in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 2012, pp. 4-7, 48-49)*
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