Le idee fanno la storia. Così potremmo riassumere il significato nonché l’insegnamento dell’interpretazione che Jonathan Israel offre della Rivoluzione francese in questo ponderoso studio che rappresenta il culmine della sua ultradecennale ricerca storiografica sulla natura di quel complesso di idee, uomini e gruppi che passa sotto il nome di “illuminismo”. Ebbene, Israel ritiene che si possano individuare due filoni principali all’interno di un movimento così multiforme e, a tratti, contraddittorio: quello “moderato”, deista e incline al compromesso con le confessioni cristiane, che trova in Locke e Newton i suoi ispiratori, e quello “radicale”, che parte e ritorna costantemente al magistero di Spinoza, autore molto presente in tutto il diciottesimo secolo. Fu però assai più ostracizzato del pur scandaloso Voltaire, che i rivoluzionari avrebbero onorato traslandone i resti al Panthéon nel 1791, dopo Mirabeau (rimosso però nel settembre del 1794) e prima di Rousseau (depostovi nell’ottobre del 1794). Lo spinozismo agì come fiume carsico che corrose molte certezze della società europea di antico regime, sia sul piano etico sia sul piano politico. Proprio dal filone radicale dell’illuminismo si alimentò un pensiero materialista, ateo e democratico, che ritroveremo sia nei più diffusi ed efficaci pamphlet e giornali rivoluzionari del periodo 1788-89, sia nei grandi provvedimenti legislativi presi nel corso della fatidica estate dell’Ottantanove, quella che ha segnato una rottura epocale e l’avvio di una storia dentro la quale ancora sostanzialmente ci muoviamo. È solo nello sgretolamento dell’Altare che si sarebbe potuto far vacillare anche il Trono, l’altro pilastro politico-istituzionale e simbolico su cui si reggeva l’antico ordine feudale sclerotizzato in Francia da una monarchia a vocazione assolutista sin dai tempi di Luigi XIV. Israel ne è convinto: «senza prima indebolire la fede in un governo divino del mondo, intelligente e benevolente, e nell’autorità religiosa in genere, non vi era alcuna strada percorribile per una coscienza rivoluzionaria preparata a costruire un nuovo ordine morale, per sostituire l’ancien régime con riforme che riorientassero in modo fondamentale la ricerca della felicità – individuale e collettiva – e i fini essenziali dello Stato» (pp. 785-786).
Con quest’opera lo studioso britannico, docente di Storia moderna a Princeton, intende contestare tanto l’interpretazione marxista quanto quella liberale delle cause e dell’evoluzione politica e ideologica della Rivoluzione francese. Non fu la borghesia, intesa in un’accezione otto-novecentesca, ossia imprenditoriale, industriale e capitalistica, a promuovere l’insurrezione contro la monarchia e contro la nobiltà. E non ci sarebbe nemmeno stata una prima fase “liberale”, corrispondente al periodo 1789-91, seguita da una degenerazione, incarnata dal giacobinismo e sfociata nel Terrore a opera del Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre fra 1793 e 1794. Ancor meno corrispondente al reale andamento dei fatti sarebbe infine la teoria che attribuisce le violenze giacobine a un illuminismo che, esaltando la ragione e denigrando le istituzioni religiose e civili, avrebbe in sé le premesse di una tale barbarie. Tesi, quest’ultima, cara ai controrivoluzionari, cui talvolta, nella storia della storiografia sulla rivoluzione francese, si sarebbero avvicinati anche interpreti di orientamento liberale. Dunque nessun legame tra l’illuminismo e Robespierre, essendo quest’ultimo da considerarsi piuttosto come una negazione dei principi filosofici cardine del 1789 e del post-Termidoro, ossia il periodo che va soprattutto dal 1795 al 1799 e che vede una ripresa dell’ideologia e della prassi legislativa di stampo repubblicano democratico. Secondo Israel, il decennio che passa sotto il nome di “rivoluzione francese” fu in realtà caratterizzato da tre rivoluzioni: una rivoluzione repubblicana democratica, un costituzionalismo monarchico ispirato all’illuminismo moderato, «che si richiamava a Montesquieu e al modello inglese quali suoi criteri di legittimità», e, infine, un «populismo autoritario che prefigurava il moderno fascismo» (p. 776). Al netto dell’uso talora improprio, in quanto eccessivamente attualizzante e dunque anacronistico, del lessico politico con cui qualifica i numerosi protagonisti e gruppi che animarono, avvicendandosi conflittualmente, il decennio rivoluzionario, l’opera di Israel rende giustizia al ruolo delle idee nella storia. Egli non nega, ovviamente, il peso dei molteplici fattori istituzionali, economici e sociali che posero le premesse per il crollo della monarchia francese. Sottolinea soltanto quanto, ad esempio, l’azione concreta dell’Assemblea nazionale costituente non fosse ispirata né al secondo né al terzo modello ideologico (costituzionalismo monarchico o populismo autoritario), bensì al primo, ovvero il repubblicanesimo democratico, attivo e influente sin dalla prima fase, ancora formalmente monarchica, della rivoluzione. Non bisogna pertanto confondere l’avvento della repubblica nel settembre del 1792 con l’ascesa della Montagna in parlamento e poi dell’ala giacobina, guidata da Robespierre, al suo interno. L’aspirazione e le finalità democratiche e antimonarchiche sarebbero state presenti sin dagli esordi del processo rivoluzionario. Sono così i girondini, personaggi come Brissot, Danton e Desmoulins, i veri repubblicani democratici, coloro che seppero tradurre in pratica molti dei principi dell’illuminismo radicale. Una miscela di antiscritturalismo, idee di tolleranza, critica dell’autorità ecclesiastica, egualitarismo globale, antimonarchismo e proclamazione dei diritti umani. Fu, questo blocco compatto e omogeneo di idee, elaborato nei cent’anni precedenti, «un determinante, fortissimo fattore di turbamento e rinnovamento nella politica europea» (p. 786). D’altronde, se c’è un vero artefice di molti cruciali passaggi del decennio rivoluzionario, compresa la promozione a “golpista” del giovane generale Bonaparte, affossatore della rivoluzione, questi fu l’abate Emmanuel-Joseph Sieyès. La centralità del suo ruolo era stata notata già da Edmund Burke nelle allarmate riflessioni sugli eventi francesi pubblicate il primo novembre del 1790.
Sieyès fu l’ideologo per antonomasia della rivoluzione, colui che in tempi non sospetti, esattamente nel 1773, quando niente pareva presagire imminenti sciagure per la dinastia dei Borbone di Francia, «aveva ammesso che il suo obiettivo era ‘mettere sul trono la philosophie’ cambiando il modo di pensare della gente comune» (p. 41). La filosofia dei lumi come rivoluzione della mente si propagò come un contagio grazie a una stampa sempre più in fermento, su cui la censura regia si affievolì nel corso degli anni Ottanta, fino a disintegrarsi del tutto con la presa della Bastiglia. La teoria si fece prassi. E così a Parigi e dintorni l’illuminismo radicale trovò, tra l’inverno del 1788 e l’estate del 1789, il varco per sfondare prima e affondare poi l’edificio millenario di un potere politico fondato sull’alleanza fra Trono e Altare, che, artificiosamente rianimato con il congresso di Vienna, avrebbe proseguito ancora per un po’, ma come un morto che cammina.