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La natura selvaggia è anche una serie di dati geografici e ambientali, è una sequenza di reperti geologici, botanici e zoologici. Ma ciò che chiamiamo natura selvaggia è una modalità di organizzazione di quei dati, che assumono il loro significato solo opportunamente riordinati all’interno di un sistema culturale. Il suo orizzonte di senso resta in questo caso la società occidentale, che ha confezionato il prodotto culturale chiamato natura selvaggia. Ben diverso sarebbe il risultato se a essere applicati a quei dati fossero i paradigmi culturali di culture diverse: panteiste, animiste, magiche ecc. A sua volta è vero quanto scrisse Emerson in English Traits: l’idea della natura nutrita da qualunque popolo pare determinare tutte le sue istituzioni.
Ma c’è di più. Di là da ogni ingenuità oggettivistica, anche all’interno della medesima cultura, gli stessi insiemi di reperti in un secolo sono stati contrassegnati in modo completamente diverso dal secolo successivo. Nel mondo dell’ancien régime il bosco e le montagne erano caratterizzati negativamente come luoghi non riscattati dal lavoro dell’uomo, mentre alcuni decenni più tardi sarebbero stati vagheggiati come luoghi miracolosamente risparmiati dall’incedere distruttivo della civiltà. Possiamo addirittura sostenere che proprio il selvaggio, che vorrebbe proporsi come più radicale alternativa a un dato culturale, in realtà ci dice qualcosa di fondamentale su quel dato, ne risulta in qualche modo complementare. Ad esempio, non c’è bisogno di ricordare come il «selvaggio» dell’età dei Lumi possieda scarsa densità antropologica e risulti in realtà un reagente, uno stratagemma per rimettere in discussione la condizione dell’uomo civilizzato e per sollecitarne la liberazione dalle incrostazioni accumulate dalla storia. Attraverso il selvaggio, l’uomo europeo cerca di gettare uno sguardo nel proprio passato e, così facendo, sviluppa una duplice riflessione, che riguarda sia la natura umana, sia le presunte adulterazioni indotte dalle istituzioni civili. Allo stesso modo in Rousseau, come in molti uomini di cultura del Settecento, l’idea di natura rinvia alla condizione originaria, verrebbe da dire antologica dell’uomo, invece che a uno stato più vicino alla wilderness. Piuttosto che come un’effettiva situazione storica e culturale, si offre dunque come una categoria sostanzialmente antihobbesiana, incaricata di innescare una proficua reazione. Uno «strumento di autocoscienza», come è stata giustamente definita, o un’astrazione, concepita per mostrare allo stato puro, quasi fossimo in laboratorio, le forze che agiscono nell’uomo, prima di ogni costrizione o condizionamento.
Ogni costruzione sulla natura risulta dunque inseparabile dalla civiltà che l’ha pensata e di essa ci offre molte più informazioni di quanto possiamo a prima vista immaginare, allo stesso modo in cui l’orientalismo studiato da Edward W. Said ci fornisce preziose informazioni sull’Occidente colonizzatore. E così tra Medioevo e Rinascimento il reagente della natura selvaggia ci fa capire il carattere centripeto della città, assediata da un mondo esterno pochissimo abitato e sentito come minaccioso. Nel Settecento la natura diventa un antidoto ai mali della civiltà, al suo artificio, alla perdita di schiettezza e spontaneità. A cavallo tra Sette e Ottocento la wilderness viene contrapposta al mondo degradato della rivoluzione industriale e delle sue viziose Tebaidi. Nella seconda metà del XIX secolo diventa la meta di una fuga, sentita ormai come unica risposta alla degenerazione della società borghese. Infine nell’età contemporanea la natura libera è diventata un mito collettivo, in cui si materializzano le ansie e i sensi di colpa dell’uomo, che sta distruggendo il pianeta dove abita.
Tutto ciò contribuisce a porre in luce lo statuto per certi versi paradossale dell’idea di natura selvaggia. Nella cultura dell’ancien régime essa era assente, nel senso che non esisteva come idea a sé, proprio mentre la natura selvaggia trionfava invitta e rigogliosa al di fuori delle categorie culturali dell’uomo, in un mondo ancora pieno di foreste vergini, di isole deserte e di montagne mai scalate. Al contrario, nella modernità la natura selvaggia è quanto mai presente, la sua idea si è compiutamente affermata nella nostra cultura, ma solo per testimoniare la propria tendenziale e inarrestabile cancellazione dalla realtà, di conserva con la progressiva caduta di tutte le ultime «frontiere». Va dunque risolutamente sottolineato che l’idea di wilderness non è il risultato di un’evoluzione compiutasi nel corso del tempo, ma nasce da una crisi, è la risposta a una discontinuità storica, che ha indirizzato gli uomini verso una percezione diversa della natura.
(da F. Brevini, L’invenzione della natura selvaggia. Storia di un’idea dal XVIII secolo a oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, pp. 20-22)*
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