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Appuntamento in collaborazione con: Ufficio ricerche e documentazione sulla storia urbana, Comune di Modena
Le teorie e soprattutto le pratiche delle trasformazioni urbane in corso si arrendono di fronte al disfarsi della città contemporanea, o perfino lo perseguono come nel caso di chi teorizza l’omologante “città generica”. Una prospettiva di urbanizzazione destinata ad abbracciare il pianeta, perdendo il senso sia della città che del globo. Un mondo come immensa città. Che non è la stessa cosa che dire città-mondo, città globale, città delle reti: tutti modi di rappresentare le forme di apertura della città, di interconnessione tra centri, nodi e luoghi diversi. Dunque si confrontano qui il mondo-città, frutto di una visione tutta sistemica e funzionale, e la città-mondo, che è processo storico e culturale. Dire che la densità della popolazione modella la morfologia di una città è un tipico esempio di approccio funzionale, mentre affermare che le grandi città sono siti strategici di formazione di identità transnazionali è un altrettanto tipico esempio dell’approccio storico-culturale.
«Non ancora dimora l’umanità in un’unica casa» (F. Rosenzweig). La globalizzazione non ha ancora ridotto l’enorme varietà del mondo, né la storia è giunta al termine. Al contrario si può riaffermare la natura distintiva delle città, la loro capacità di innovare, di non esaurire le proprie variazioni. Di continuare a produrre forme. Di formare relazioni sociali e dare impronta culturale ai prodotti materiali e immateriali che nelle città gli uomini realizzano. Pluralità e varietà che le forme urbane possono selezionare e riprodurre. (…)
Nel Novecento la forma incontra il suo limite, viene cioè negata. Il primo a dirlo è stato Bergson nell’Evoluzione creatrice (1907). «Ora, la vita è un’evoluzione. Noi concentriamo un periodo di questa evoluzione in un aspetto stabile che chiamiamo forma, e quando il cambiamento è divenuto abbastanza rilevante da sconfiggere la beata inerzia della nostra percezione, diciamo che il corpo ha cambiato forma. In realtà, però, il corpo cambia forma in ogni momento. O meglio, non esiste forma, in quanto la forma attiene a ciò che è immobile, mentre la realtà è in movimento. Reale è soltanto il cambiamento continuo di forma». Solo l’eidos, l’idea, riassume in sé la qualità, la forma e il disegno: è la «veduta stabile presa sull’instabilità delle cose». Il movimento moderno dell’architettura non conosce la forma ma solo i problemi della costruzione: la forma non è lo scopo ma il risultato. La forma come obiettivo è il formalismo, che viene rifiutato. Città e casa sono macchine per abitare. Funzionalismo contro forma: eppure G (Gestaltung) è il nome della rivista che riunisce i costruttivisti europei del primo Novecento intorno all’idea di unità stilistica e di rappresentazione collettiva, anti-individualistica, delle arti. Quindi rifiuto della forma come ornamento, ma convinta ricerca dell’unità essenziale dell’opera, della piena integrazione delle sue parti (colore, arredo, utensile, ma anche disegno, tecnologia, architettura) nella funzione.
Nel secondo Novecento alla modernità non basta più la visione: occorre la previsione, la piena dominazione tecnica del mondo. Previsione è ogni sorta di conoscenza degli sviluppi e degli accadimenti futuri, legata all’utilizzo del sapere esistente. La memoria è in questo senso una funzione della previsione. Da cui prognosi, prospettiva come parole-chiave della modernità. La modernità è ossessionata dal futuro. Al futuro chiuso, già predeterminato da tradizioni o presupposti, la modernità contrappone il futuro aperto, spazio in gran parte esposto a un’imprevedibile contingenza. Il futuro qui viene né conosciuto né preannunciato ma creato attraverso l’azione.
Ma questa prospettiva “attivista” comporta che il passato ricostruito nella memoria perda ogni capacità di orientare il presente. Questa perdita porterebbe a dimenticare l’essenziale, non solo: finirebbe per rendere lo stesso futuro indecifrabile e piatto, annullando ogni profondità temporale. Invece, anche seguendo un approccio costruttivista, «la costruzione del futuro resta condizionata sia nella progettazione che nell’azione dalle esperienze del passato e dalla percezione del presente» (N. Rosa). Utile è che accanto alla memoria collettiva si metta in campo una “attesa collettiva”.
Queste idee trovano un campo di applicazione assai importante nella città. Essa è più di ogni altro «un sistema di organizzazione connessa in rete nel quale ogni parte influisce sul tutto, anzi un sistema di organizzazione dinamica in rete che si modifica nello spazio e nel tempo» (F. Cramer). È questa allora la forma che la città sta assumendo, provvisorio ordine in costante movimento caotico. Ma anche tessuto di relazioni sempre in bilico, creazione di ordini spontanei in perenne adattamento, socialità consapevole che si mescola con un substrato quasi biologico.
(da P. Perulli, Visioni di città. Le forme del mondo spaziale, Torino, Einaudi, 2009, pp. 4-6)
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