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I riti sacrificali vedici si distinguono in solenni e domestici (srauta, grhya): il primo tipo prevede l’intervento di un numero di sacerdoti officianti proporzionale alla solennità e all’importanza dei fini richiesti (in primo luogo, la rinascita del committente nel mondo celeste; e la nascita di un figlio maschio del committente, unico abilitato a officiare i riti funebri in onore del padre una volta defunto); il secondo tipo è più modesto e viene generalmente compiuto dal capofamiglia senza bisogno dell’intermediazione di uno o più sacerdoti. Tra i riti solenni assume particolare importanza cosmologica e politica il sacrificio del cavallo (asvamedha), celebrato da un sovrano per sancire la sua dignità di monarca universale (cakravartin). Al termine di un anno in cui viene lasciato vagare liberamente protetto da una schiera di cavalieri armati, lo stallone viene ricondotto a corte e ivi immolato (segue una ierogamia simbolica con la consorte principale del re). Altro rito di rilievo è quello della consacrazione regale mediante aspersione con acqua (abhiseka), praticato anche (con le opportune modifiche procedurali) in occasione dell’investitura di un religioso al rango di maestro spirituale.
Al di là delle molte varianti, il sacrificio (yajna) che sta alla base delle pratiche religiose vediche prevede l’immolazione sul fuoco sacrificale di una vittima animale. L’uccisione avviene per soffocamento della vittima per evitare spargimento di sangue, suscettibile di contaminare l’area sacrificale. Si stabiliscono delle formule eufemistiche intese a “estorcere” il consenso della vittima a essere uccisa, per separare nettamente il sacrificio dall’uccisione. Per esempio la vittima va posta al limite tra area consacrata e non consacrata, per evitare che contamini la prima e risulti estranea al rito se collocata nella seconda; si invoca dalla vittima l’assenso e si ritiene che essa, impossibilitata alla parola in quanto animale non parlante, esprima il proprio consenso a essere immolata per bocca dell’officiante. Il sacrificio si propone di “cuocere il mondo” (Charles Malamoud), ossia di rendere il mondo che di per sé è “crudo”, indigesto, ostile all’uomo, “cotto”, ossia padroneggiabile. Il fulcro del sacrificio può essere individuato nel concetto di trasferibilità. Il committente (yajamana), ossia colui che paga l’onorario dei brahmani e fornisce le vittime sacrificali oltre alle varie sostanze impiegate nel rito, offre se stesso in sacrificio: la vittima sacrificale è meramente una vittima vicaria. L’antecedente mitico di questo comportamento è Prajapati, il signore degli esseri soggetti a nascita che offre se stesso in sacrificio per dare origine all’universo: dall’uno nasce il molteplice. Questo è il primo trasferimento, l’individuazione di una vittima vicaria per consentire al committente di compiere il sacrificio e contemporaneamente di sopravvivere. Il secondo è un trasferimento di meriti: i meriti che derivano dalle pratiche sacrificali compiute sono trasferiti dai sacerdoti, che li dovrebbero lucrare in prima persona in quanto sono loro a compiere il sacrificio, verso il committente, che si limita a fornire le materie prime. Qui viene adombrata per la prima volta la teoria del karman, della retribuzione delle azioni, che tanta parte avrà nell’hinduismo. Un terzo trasferimento è quello del sacrificato re officiante, che mentre versa l’ablazione nel fuoco sacrificale dice per esempio: «Questo non è per me, è per Agni [il dio del fuoco]». In questo caso il trasferimento è complesso: il sacrificatore è già vicario, perché come abbiamo visto è il committente colui che viene idealmente sacrificato, ed è sempre il committente che sacrifica per il tramite degli officianti. Ma qui si compie un passo ulteriore: l’officiante, che sacrifica non per sé ma per conto del committente, rinuncia al frutto del sacrificio in favore della divinità, ossia proclama che il frutto del sacrificio non va a beneficio di un interesse particolare (come la nascita di un figlio maschio e simili) del committente, ma si propone di contribuire in misura rilevante a tenere in piedi il cosmo, a far sì che le cose vadano come dovrebbero andare. Senza la continua pratica del sacrificio il cosmo non si reggerebbe. Una tale importanza del sacrificio spiega come mai gran parte delle elaborazioni concettuali dell’hinduismo si fondi proprio sulla interiorizzazione del sacrificio stesso. Dopo aver rinunciato una volta per sempre al sacrificio come spegnimento di vite (rinuncia cui forse non va considerata estranea la protesta espressa dal buddhismo), il sacrificio viene sublimato in sacrificio di Sé (quello che era in origine, il mito del macrantropo primordiale che si smembra per dare luogo alla molteplicità), ovvero in rinuncia ai frutti dell’azione. Questo è il quarto livello di trasferimento.
(da A. Pelissero, Hinduismo. Storia, tematiche, attualità, Brescia, La Scuola, 2013, pp. 47-51)*
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