Troppo spesso il successo tra il grande pubblico dell’opera di Marc Chagall è dovuto a un superficiale apprezzamento della dimensione onirica e fantastica del suo universo pittorico, una dimensione che, pur presente, in realtà cela un complesso sistema simbolico ed è il risultato di un dialogo serrato con la Storia (non si dimentichi che la vita di Chagall attraversa quasi per intero il XX secolo e i suoi orrori, dalla nascita a Vitebsk nel 1887 alla morte a Saint-Paul-de-Vence nel 1985).
Con L’ebreo errante di Chagall. Gli anni del nazismo, Marcello Massenzio fa confluire in un’unica, ampia riflessione due trame finora apparentemente distinte del suo percorso di ricerca, quelle sulla figura dell’ebreo errante e quella sull’opera di Chagall (trame di cui ricordiamo solamente La passione secondo l’ebreo errante, Macerata, Quodlibet, 2007, e Chagall. Solitude et mélancolie. 1933-1945, Paris, L’Echoppe, 2014), e lo fa concentrandosi su alcune delle opere che il pittore ha concepito e prodotto come reazione all’ascesa del nazismo e alla persecuzione e allo sterminio degli ebrei: in particolare Solitude (1933), La Crucifixion Blanche (1938), La Chute de l’Ange (1923-1947), Apocalypse en Lilas. Capriccio (1945-1947), Le Triptyque. Résistence. Résurrection. Libération (1937-1952), senza dimenticare il destino di La prisée (1923-1926), portata in processione, derisa e vilipesa a Mannheim nell’aprile 1933 e compresa tra le opere esposte nella tristemente nota esposizione Entartete Kunst del 1937 (fortunatamente sopravvissuta e oggi a Basilea).
Si tratta di un nucleo di opere che consentono di definire Chagall come un “pittore di storia” del tutto particolare: libero dai vincoli della mera cronaca degli eventi, la cifra dell’artista, secondo Massenzio, «risiede nell’aspirazione costante a trascendere il livello di immediatezza al fine di fare interagire il piano della storia con la dimensione metafisica, il contingente con l’assoluto: da qui deriva la componente speculativa della sua produzione pittorica» (p. 103).
Compresa tra una preliminare ricostruzione della tradizione cristiana ed ebraica della figura dell’ebreo errante e i suoi sviluppi nel Novecento post-Auschwitz (in particolare in Elie Wiesel, Jorge Luis Borges e Guillaume Apollinaire), Massenzio ci offre una lettura dell’opera di Chagall in cui emergono tre questioni fondamentali, che potremmo sinteticamente definire come quelle della testimonianza, della patria e della melancolia.
Il tema della testimonianza è evidentemente quello che riprende in modo più diretto le tradizioni cristiana ed ebraica sulla figura dell’ebreo errante. Le ragioni della maledizione che colpisce Cartaphilus/Ahasuerus e le modalità con cui si dispiega la sua infinita erranza (che continuerà fino alla seconda venuta di Cristo) passano infatti in secondo piano di fronte al fatto che egli resta l’unico essere vivente testimone della morte di Cristo, l’unico che possa affermare che quanto è raccontato nei Vangeli non è una leggenda, ma è realmente accaduto. Una testimonianza che, nell’opera di Chagall, si declina in modo particolare: nelle immagini della catastrofe – lo stetl in fiamme e la violenza nazista – è possibile rinvenire la particolare rappresentazione del Cristo ebreo, che in quanto tale pone un particolare accento sulla sua umanità anziché sulla sua divinità, la madre che protegge il figlio, il rabbino che protegge la Torah e l’ebreo in fuga col proprio sacco in spalla. Suo sarà il compito di raccontare la catastrofe e salvare il “mondo” contenuto nel suo sacco. Di fronte alla catastrofe, sottolinea Massenzio, di fronte alla caduta «prefigurazione del vuoto di senso che si profila all’orizzonte (…) vi è qualcuno pronto a portare in salvo il rotolo della Torah; vi è una madre pronta a fornire protezione e riparo a suo figlio; vi è qualcuno pronto a riprendere il sacco-mondo in spalla, il cammino verso un ipotetico altrove» (p. 100).
Qui si innesta il secondo tema, quello della patria, in diretta contrapposizione con quella Weltlosigkeit des Judentums, quell’assenza di mondo che, secondo Heidegger, caratterizza l’ebraismo nella contrapposizione tra l’uomo “formatore di mondo” (weltbildend) e l’animale “povero di mondo” (weltarm). Come sottolinea Massenzio, in Chagall la figura dell’Ebreo errante è «una creazione che fonde, dialetticamente, innovazione e conservazione: la prima riguarda il ribaltamento-rifiuto dello stereotipo dell’Ebreo errante visto come un derelitto, un sopravvissuto soltanto, senza un retroterra in cui affondare le radici; la seconda concerne il recupero del passato posto nel segno del nomadismo, in cui la nozione di mondo prescinde dalla “possibilità di fare corpo con la terra”» (p. 126). La distinzione heideggeriana risulta perciò irrilevante e inconseguente poiché la costruzione di un mondo e di una patria, e il sentimento di appartenenza che lega l’individuo al proprio mondo, per Chagall (e per tanta parte della tradizione ebraica e non solo) non è costretto al legame con un luogo determinato: ogni mondo e ogni patria sono essenzialmente “mobili” e possono stare in un sacco nel momento in cui è necessario fuggire per proteggerli e salvarsi.
Infine, di fronte alla catastrofe, la testimonianza e la protezione del sacco-mondo rendono la figura dell’ebreo errante paradigmatica dell’uomo moderno come uomo melancolico. Per questa ragione Massenzio ritiene centrale un’opera come Solitude, nella quale Chagall «traduce in immagine l’attimo sospeso in cui si consuma il distacco dell’umano dal divino» (p. 109). È il medesimo distacco che nell’opera di Chagall è rappresentato dall’umanità del Cristo ebreo. Il parallelo più significativo è perciò quello che emerge tra l’ebreo errante come figura dell’uomo melancolico moderno e il Giovanni Battista come ultimo rappresentante di un mondo che si conclude definitivamente con la venuta del Cristo. Ma in Chagall, a differenza che nella tradizione cristiana, manca la dialettica che caratterizza la relazione tra il Battista e il Cristo. Il legame tra umano e divino sembra spezzarsi sotto i colpi dell’orrore nazista. Commentando in particolare Solitude (1933), Massenzio coglie tutta la portata della melancolia rappresentata da Chagall: «Il protagonista della tela chagalliana ha questo di specifico: essere legato all’ebraicità, a una particolarissima fase storica attraversata dal “popolo del Libro” e, allo stesso tempo, incarnare la condizione ontologica dell’uomo occidentale, posto di fronte al “silenzio di Dio” e al conseguente sentimento di separazione, da cui trae linfa una particolare forma di melanconia» (p. 126).
In conclusione, riannodando i tre temi portanti della lettura di Massenzio – testimonianza, patria e melancolia – ritroviamo il senso specifico della “pittura di storia” di Chagall, incarnata dalla rappresentazione del Cristo ebreo, molto più umano che divino. Facendo riferimento a Apocalypse en Lilas. Capriccio (1945-1947), conclude Massenzio: «Cristo, il cui martirio ha avuto nell’Ebreo errante il proprio testimone eterno, diviene a sua volta, grazie al pittore di Vitebsk, l’eterno testimone del martirio del suo stesso popolo. (…) Il senso ultimo dell’evocazione pittorica della Shoah, che ha il respiro della mitopoiesi, risiede nella determinazione dell’artista di sottrarla al “normale” destino che accomuna gli accadimenti della storia, una volta sprofondati negli abissi del passato. Il presente in cui si situa l’apocalisse del titolo della gouache appartiene al presente storico e, simultaneamente, si carica di una valenza a-storica: lo si potrebbe definire “presente che non passa”» (p. 205).