«Il Caffè è un’istituzione indefinibile. I commercianti vi trattano i loro affari, e gli avvocati vi fissano appuntamenti per affrontare le questioni più spinose […] è allo stesso tempo Borsa, foyer di teatro, gabinetto di lettura, club, confessionale». Con queste parole Balzac descriveva il Caffè Florian di Venezia, il Caffè più antico d’Italia, fondato nel 1720 sotto i portici delle Procuratie Nuove in piazza San Marco. Del resto, era stata Venezia la città attraverso la quale, negli ultimi decenni del XVI secolo, il caffè era giunto in territorio italiano, grazie agli intensi traffici commerciali che la Serenissima intratteneva con l’Oriente. Stando alle cronache, fu un ambasciatore veneziano a Istanbul a introdurre la bevanda nella laguna.
Proprio il Florian è la prima tappa del recente libro di Massimo Cerulo, che in otto capitoli tratteggia una mappa sociologica dei Caffè storici lungo la penisola, conducendoci alla loro scoperta grazie a un appassionato racconto per parole e immagini. L’idea da cui muove Cerulo è che i Caffè siano stati luoghi fondamentali sia per la formazione di una coscienza politica nazionale, sia per la costruzione della socialità e della sfera pubblica, secondo la felice intuizione che ebbe Jürgen Habermas riferendosi alla funzione svolta dalle coffeehouses inglesi nel Seicento. Non ci si recava, infatti, ai Caffè per consumare una bevanda (o almeno non solo per questo), ma anzitutto per incontrarsi, informarsi, conversare, discutere, ascoltare o comporre musica, coltivare relazioni, riflettere, scrivere, giocare a domino e a scacchi, o semplicemente fumare. Non a caso, nel 1764, i milanesi Pietro e Alessandro Verri vollero intitolare la loro rivista – che si proponeva di diffondere le idee illuministiche in Italia, «Il Caffè» – con riferimento allo scambio di opinioni e alla circolazione di pensiero che avveniva in questi locali.
Tra la fine dell’età moderna e l’inizio di quella contemporanea, i Caffè resero infatti possibile una piccola rivoluzione sociale, ponendosi come “luogo terzo” a cui tutti potevano accedere più o meno liberamente, senza distinzione di ceto, censo o genere; sebbene tale apertura, almeno in Italia, fu progressiva e conobbe avanzamenti significativi soprattutto nel corso del Novecento. Molti Caffè veneziani, ad esempio, permettevano l’ingresso non solo agli uomini, ma anche alle donne, nonostante i divieti inquisitoriali. Lo stesso avveniva Al Bicerin di Torino, che si trovava, e si trova tuttora, di fronte all’ingresso della Chiesa di Santa Maria della Consolazione, più nota come Santuario della Consolata: non di rado accadeva che le donne torinesi, dopo aver assistito alle celebrazioni religiose, prevedessero una sosta al Caffè, che deve il suo nome alla tipica bevanda che vi veniva preparata, a base di caffè, cioccolata e crema di latte, la cui ricetta è tuttora segreta.
Nei Caffè, inoltre, tutti i clienti dovevano ricevere, almeno in linea di principio, il medesimo trattamento. Al Pedrocchi di Padova, per volere dello stesso fondatore, a nessun avventore dovevano essere negati generi di conforto considerati essenziali: un bicchiere d’acqua per dissetarsi, una presa di tabacco, ago e filo per rammendare l’abito e un ombrello per ripararsi dal maltempo. Un’altra particolarità del Caffè padovano – citato persino da Stendhal in uno dei suoi capolavori, la Chartreuse – è che fino all’inizio del Novecento rimase aperto giorno e notte, senza interruzioni, tanto da guadagnarsi la fama di “Caffè senza porte”. Solo nel 1916, nel pieno della Grande guerra, il rischio di possibili attacchi aerei (il Caffè con le sue luci poteva essere un potenziale bersaglio) suggerì la chiusura del locale nelle ore notturne.
La storia del Pedrocchi, nota Cerulo, è importante anche perché strettamente legata alle tormentate vicende della storia nazionale. Il Caffè, infatti, fu uno dei centri in cui si organizzarono i primi moti patriottici contro la dominazione asburgica, tanto che nel febbraio 1848 le sue sale furono lo scenario di un sanguinoso scontro tra i soldati austriaci e gli studenti dell’Università padovana di cui rimane ancora oggi traccia in un foro causato da un proiettile in una delle pareti della cosiddetta sala bianca (le tre sale del pianterreno del Caffè hanno i colori della bandiera italiana). I numerosi cambi di nome del Tommaseo di Trieste sono un’ulteriore testimonianza della vocazione “politica” dei Caffè. Nel 1830, quando venne aperto, il locale prese il nome di “Tommaso” dal suo primo proprietario, Tommaso Marcato; diciotto anni più tardi, però, il Caffè fu ribattezzato in onore dello scrittore e patriota dalmata Niccolò Tommaseo, assumendo così una forte connotazione irredentista e antiaustriaca. Negli anni Ottanta dell’Ottocento, dopo l’impiccagione di Guglielmo Oberdan, il nome fu di nuovo modificato, per timore di una eventuale reazione da parte delle autorità austriache. Dal novembre 1918, infine, con l’occupazione di Trieste da parte del Regio Esercito, tornò di nuovo a chiamarsi Tommaseo. Nel 1837, poco dopo la sua apertura, anche il torinese Caffè San Carlo fu temporaneamente chiuso per le sospette attività cospirative che vi si tenevano.
Tradizionalmente i Caffè sono stati luogo di ritrovo per musicisti, scrittori, artisti e intellettuali in genere. In tema di Caffè letterari, è impossibile non occuparsi di Firenze, dove nella sola piazza della Repubblica (già piazza Vittorio Emanuele) sorgono ben tre importanti Caffè. Anzitutto, il Gilli, che prima di approdare nella piazza, ebbe sedi diverse (in via dei Calzaiuoli, prima, e in via degli Speziali, poi): qui iniziò a muovere i primi passi il movimento futurista, con Marinetti che vi declamò alcuni passaggi del suo Manifesto. Vi è poi il Caffè delle Giubbe Russe, che deve il suo nome alle divise color rosso fiamma usate dai camerieri e ispirate alla moda viennese; prima della Grande guerra il suo nome era Reininghaus, dai fratelli svizzero-tedeschi che lo avevano inaugurato. Il locale, nel giugno 1911, fu l’ambientazione di una zuffa tra futuristi milanesi e futuristi fiorentini e, dalla fine degli anni Venti, ebbe tra i suoi frequentatori abituali Eugenio Montale, che diede vita proprio qui a un cenacolo letterario. Infine, ma non certo per ultimo, va ricordato il Caffè Paszkowski, che fu istituito come birreria alla fine dell’Ottocento dal polacco Karel Paszkowski e che ebbe tra i suoi avventori Dino Campana, il quale tentava di vendere qui qualche copia dei suoi Canti orfici al prezzo di due lire d’argento.
Di letterati e artisti, provenienti da tutta Europa, era composta anche la clientela dell’Antico Caffè Greco di Roma, in via Condotti, così chiamato in omaggio alle origini greche del fondatore, Nicola della Maddalena. Il Caffè – che ancora oggi custodisce una delle più ricche collezioni d’arte private del mondo, con oltre trecento opere – ospitò scrittori e poeti (Goethe, Lord Byron, Percy Bysshe Shelley, John Keats, Nikolaj Gogol, e più di recente Alberto Moravia, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini), pittori (da Tischbein al gruppo dei Nazareni, fino a Giorgio De Chirico), compositori (Gioacchino Rossini, Franz Liszt e Georges Bizet), filosofi come Arthur Schopenhauer, che pare lo frequentasse in compagnia del suo cane Ātman, e persino futuri papi, come Leone XIII (al secolo Vincenzo Gioacchino Pecci). Ma nella capitale si trovava un altro importante Caffè, l’Aragno, che sorgeva in via del Corso e che fu chiuso nel secondo dopoguerra. Tra gli aneddoti che riguardano l’Aragno uno almeno è degno di nota: nell’agosto 1926 tra i suoi tavolini scoppiò una lite tra Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti, che finì in duello. Poiché i duelli erano allora proibiti, la singolare disfida si svolse nel giardino della villa romana di Luigi Pirandello!
Come mostra Massimo Cerulo in questo suo libro, i Caffè italiani sono stati il luogo per l’espressione di fermenti culturali e politici, per la nascita di movimenti artistici e letterari, per la formazione e il consolidamento di legami sociali, per la scrittura di romanzi e racconti e per la composizione di partiture musicali. I Caffè – oggi sostituiti quasi dappertutto dai bar, caratterizzati da una consumazione veloce e da forme di socialità meno prolungate – sono pertanto ricchi depositi di memorie individuali e collettive, ignorando le quali sembra difficile poter comprendere larghi tratti della storia e della cultura del nostro passato recente.