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L’eterno ritorno. O, piuttosto, l’oscillazione del pendolo. La storia della comunicazione politica (e non esclusivamente) ondeggia e dondola tra la definizione del significato e dell’ampiezza dell’opinione pubblica (con gli omaggi, più o meno formali, alla sua centralità…) e l’elaborazione di metodi e strumenti per orientarla, condizionarla e manipolarla. La sua determinazione e delineazione costituisce difatti uno dei nodi problematici – e anche di maggiore densità teoretica – della filosofia politica, la quale cominciò tra Seicento e Settecento a porsi i temi di una nuova “fonte” inedita (e imprevista) della sovranità e della rispondenza/corrispondenza del potere alle sue istanze, attese e aspettative. L’opinione pubblica nasce in buona sostanza con il concetto moderno di un regime politico democratico e rappresentativo, che il filosofo inglese John Locke definiva come “governo dell’opinione”, sviluppo e prosecuzione del “governo di leggi”, che ha identificato una delle idee-forza del liberalismo. […]
Nella stampa degli albori, impegnata in svariate e furibonde battaglie per l’affermazione della libertà di espressione, e nell’universo culturale di lingua inglese del XVIII secolo, aveva preso a circolare con frequenza l’espressione di public spirit, manifestazione ed espressione della società civile che si riuniva nei cenacoli, nei circoli, nei caffè, nei teatri e, naturalmente, nei salotti delle dimore private; altrettanti spazi “pubblici” per il dibattito, la discussione e il consolidamento delle ragioni della borghesia, ceto economico (industriale, commerciale, finanziario e degli affari in senso generale) che rivendicava anche sempre di più forme di protagonismo politico. Proprio da questo contesto trasse origine quello che viene considerato il primo quotidiano della storia, il «Daily Courant», il quale nacque nel marzo del 1702 e continuò a uscire fino al 1735, all’insegna di ciò che rimarrà il principio ispiratore di fondo del giornalismo anglosassone: i fatti distinti e separati dalle opinioni; pertanto, il giornale riportava prevalentemente notizie senza commenti all’insegna del motto credibility and fairness. Mentre il primo marzo del 1711 due conosciuti uomini politici e di lettere, Richard Steele e Joseph Addison, etichettati come i pionieri del giornalismo nel senso moderno, diedero vita al quotidiano «The Spectator»; una breve esperienza che cessava le pubblicazioni l’anno successivo, nel 1712, ma si rivelava straordinaria, perché costituì una sorta di manifesto dell’autocoscienza e della self-confidence maturate dai ceti borghesi e mercantili inglesi alla vigilia della Rivoluzione industriale. Basato sull’analisi più che sulla diatriba politica, e sulla convinzione della positività e della bontà del dialogo tra le differenti espressioni della società per migliorarne la qualità, lo «Spectator» rappresentò una formidabile palestra del public spirit e della circolazione delle idee improntata al dialogo e alla discussione civile.
(da M. Panarari, Potere e informazione. Teorie della comunicazione e storia della manipolazione politica in Italia, 1850-1930, Firenze, Le Monnier, 2017, pp. 7-9)*
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