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Gli animali divini partecipano ai miti delle divinità cui sono associati, e le accompagnano in modo costante nelle raffigurazioni. Essi sono complessivamente chiamati vahana, “veicoli”, “cavalcature”, perché le divinità sono spesso visualizzate sedute su di essi. Il vahana di Vishnu è Garuda, un grande uccello simile a un’aquila, o forse meglio a un avvoltoio, sul quale il dio muove nel cielo: l’immagine rafforza la valenza solare di Vishnu. Legato a Shiva è invece il toro Nandin (il “Gioioso”); l’animale compendia la sacralità dei bovini con la potenza erotica attribuita a Shiva. Brahma è, a sua volta, connesso con l’uccello chiamato hamsa, una maestosa oca bianca, che è simbolo antico del brahman, l’Assoluto. Il pavone è peculiare a Skanda, figlio di Shiva, e al suo omologo tamil Murugan; mentre la “cavalcatura” di Ganesha, il dio dalla testa elefantina anch’egli considerato figlio di Shiva, è un topolino, il quale sa superare tutti gli ostacoli, né più né meno come promette di concedere questo dio. Sulla tigre o il leone, che l’iconografia indiana tende a confondere, siede poi la dea Durga, il che ben si addice al suo ruolo di indomita combattente. Un discorso a parte merita infine un altro animale, cioè il serpente, o meglio il cobra (Coluber naga), che non è il contrappunto di un’altra divinità, bensì è tradizionalmente considerato divino esso stesso.
Per l’induismo i bovini sono sacri, e in modo speciale lo è la vacca, il cui archetipo celestiale è Kamadhenu, la “Vacca [che realizza] i desideri”, nata, vuole il famoso mito, durante il frullamento dell’oceano di latte al quale partecipano gli dèi (deva), e i demoni (asura). La concezione della sacralità della vacca nasce in epoca remota, quando il bestiame è di vitale importanza per l’economia degli Arya. Si accresce quindi per via dell’associazione della vacca con il rituale brahmanico e con la sacra figura del brahmano officiante: prodotti quale latte e burro chiarificato sono indispensabili nel culto, e l’animale viene considerato il dono più appropriato da offrire in forma di ricompensa e omaggio (la cosiddetta daksina) per l’opera prestata dal sacerdote. Nella vacca, insomma, si identifica una sorta di alter ego del brahmano: ora, l’uccisione dì un brahmano è considerata il crimine più grave dalla normativa tradizionale hindu, e così pure viene concepita come una colpa gravissima l’uccisione di una vacca. A quest’antica motivazione si aggiungono via via altri fattori culturali: la nonviolenza (ahimsa), il vegetarianesimo, l’interpretazione della vacca come modello di amore per il suo tenero accudimento del vitello. La convivenza con l’islam, che non condivide il principio, accentua la valenza caratterizzante del rispetto dei bovini, fino a farne in epoche recenti uno dei tratti più espliciti e non di rado strenuamente difesi dell’identità hindu.
(da C. Pieruccini, Induismo, Milano, Electa, 2008, pp. 190-192)