• Arte e sacro

    Il ruolo delle pratiche artistiche nelle tradizioni religiose

L’arte della metamorfosi

Le maschere nelle culture dell’Africa subsahariana

  • Ivan Bargna

    Professore di Antropologia estetica e di Antropologia dei media presso l’Università di Milano-Bicocca

  • venerdì 07 Febbraio 2025 - ore 17.30
Centro Studi Religiosi

L’avvicinarsi alla maschera in una prospettiva che ne valorizzi la dimensione antropopoietica richiede che si eviti di porla, in modo riduttivo, come un oggetto che sta nelle mani di un soggetto, il quale ne dispone come di uno strumento, ma che la si veda piuttosto come una pratica di costruzione/decostruzione dell’identità (corporea, personale, sessuale, culturale, artistica…).

La maschera sarebbe cioè uno dei modi attraverso cui gli esseri umani tradurrebbero in atto le loro virtualità generiche nella particolarità di una forma determinata, che a sua volta retroagisce e incide sulle capacità percettive e intellettive del corpo, così modificandole in modo più o meno marcato e duraturo. La maschera non si limita però a fornire all’indeterminatezza umana i contorni di una figura, un modello in rapporto al quale definirsi in termini di contiguità o distanza, ma è anche uno dei nodi che consentono agli uomini di passare da una forma all’altra sviluppando una qualche consapevolezza del carattere arbitrario e convenzionale della determinazione culturale.

In questa prospettiva la maschera è quindi innanzitutto un dispositivo di produzione di realtà e come tale rientra nell’ambito della “tecnica”, intesa da un lato come protesi ed estroflessione del corpo e dall’altro come agente di introflessione antropopoietica. Il che significa, in altri termini, vedere nella maschera non solo un oggetto che sta dentro il mondo ma anche uno degli anelli di connessione di quella catena mondo-uomo-mondo (o uomo-mondo-uomo) attraverso cui si «costruisce il mondo nell’uomo (epistemologia) e, insieme, l’uomo nel mondo (ontologia)» (G. Longo, Il nuovo Golem, Bari 1998).

Stando così le cose non è nella dissimulazione che può essere rintracciato il tratto centrale della maschera, in essa si dovrà vedere solo una modalità del suo funzionamento. La maschera insomma non è da porsi sulla polarità “mancante” dell’opposizione essere/apparenza, realtà/rappresentazione; più che nei termini di una negazione e sottrazione di realtà la si può descrivere come l’apertura di un ambito di trans-formazione, come l’articolazione di un campo relazionale entro il quale si definiscono l’identità e la differenza fra medesimo e altro, fra dentro e fuori, fra corpo e mondo.

L’identità della maschera è quindi innanzitutto un’identità nodale e la sua è una attività costituente: non si limita ad esprimere dei significati, ma costruisce le relazioni di senso (in termini di direzione, provenienza, orizzonte) entro le quali i significati trovano posto. Nella maschera cioè si rivela tanto l’aspetto sorgivo dell’evento (il suo provenire dall’indistinto, la sua dimensione di contingenza e gratuità) quanto il suo ricadere dal lato del significato (il suo reinserimento sociale, gli effetti territorializzanti). Come indicano chiaramente certe maschere bifronti, il luogo della maschera è innanzitutto quello dell’interfaccia fra le diverse sfere della realtà di cui contribuisce a tracciare i contorni: l’intervallo temporale in cui il passato è sospeso e il futuro non ancora iniziato (come nei riti di rinnovamento e di passaggio), i margini spaziali e le soglie che separando connettono le diverse sfere della vita individuale e sociale; luoghi dell’indistinto e dell’indeterminato a partire dai quali si decidono le identità relazionali e a cui provvisoriamente si ritorna attuando inversioni e cancellazioni di differenze e ruoli per poi riconfermarli o assumerne di nuovi.

Così facendo la maschera contribuisce a costruire il mondo reale e nel contempo allude ad altri mondi possibili.

(da I. Bargna, L’entre-deux della maschera come luogo di trans-formazione, in «Erreffe. La ricerca folklorica», 49, aprile 2004, pp. 143-144)*

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