La questione non è solo quella di un aggiornamento del cattolicesimo esercitato a prescindere come un’astratta virtù di allineamento culturale. In profondità, essa agita intrecci teorici che vanno oltre il semplice dilemma circa i caratteri più o meno tradizionali delle forme artistiche. Il tema riguarda, se ci si può permettere di richiamarlo in una sintesi puramente evocativa, il rapporto sempre fluido fra pretesa performativa del rito e forza simbolica dell’immagine. Un tale rapporto eccede infinitamente il mero codice didattico dell’immagine sacra come illustrazione del dogma e complica alquanto l’immaginazione di un carattere immutabile della figurazione religiosa. Rimanda piuttosto alle molte forme storiche in cui si è dato l’incontro tra azione del rito e forza dell’immagine lungo il flusso della storia cristiana e le variabili funzioni che essa ha finito per assegnare al potere delle immagini (intese in senso molto ampio). E sconta il principio per cui un tale rapporto viene sempre istituito dalle forme complessive della cultura e mai determinate per decreto unilaterale di una parte sociale.
Una storia cristiana nuovamente raccontata oltre i cliché imposti dalla mitizzazione della cosiddetta arte sacra, lo documenta ampiamente. Lungo il suo corso, il tema di fondo sta costantemente in prossimità del rapporto immagine-sacramento (o, se si preferisce, forma-simbolo), in cui agiscono paradigmi che si corteggiano permanentemente e si contendono spazi di efficacia della dimensione simbolica. Sia il sacramento che l’immagine hanno a che fare con la “presenza reale” della dimensione trascendente (del divino). Il sacramento la realizza come simbolo in esercizio; l’immagine la evoca in forma di rappresentazione. Ma spesso le due dimensioni si miscelano fra di loro.
Certamente nell’antichità cristiana immagine e sacramento erano arrivati a un punto di tangenza molto vicino alla sovrapposizione (il culto dell’icona). Nella tradizione moderna (l’immagine della Controriforma, per dare dei riferimenti), sacramento e immagine si sono dovuti piuttosto distinguere (al sacramento la presenza reale, all’immagine l’illustrazione della dottrina). Le attrazioni fatali sono anche occasioni di legami pericolosi. Quando l’immagine si avvicina troppo al sacramento rischia di tornare a essere un idolo e diventare un feticcio. Quando essa si rifugia troppo nella rappresentazione, nell’astrazione, nel concetto, diventa autoreferenziale, oltre che svuotarsi di presa reale.
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Nello spazio liturgico tridentino l’azione era sintetizzata al massimo e il rito aveva finito per risolversi in una performance isolata ed esoterica. In un tale contesto lo spazio era dominato dalla componente visiva dell’immagine illustrativa che primeggiava anche sulla componente costruttiva degli oggetti del culto. La mediazione figurale godeva di un primato indiscutibile. Anche lo stesso simbolo sacramentale era attratto e sublimato nella logica dell’assunzione visiva. Con la riforma liturgica del Vaticano II, che ha restituito respiro a un rito più comunitario (consentiamoci pure questa espressione sommaria), si è imposta l’attenzione e la cura per i luoghi della liturgia che ora hanno (o dovrebbero avere) un chiaro primato sull’intero dispositivo estetico del rito. Dare consistenza estetico-simbolica all’altare, all’ambone, alla sede, all’assemblea, alla configurazione dello spazio, ha il significato di privilegiare esteticamente l’azione simbolica più che la rappresentazione figurale.
In questo senso si aprono interrogativi interessanti su quella tradizione legata a una figurazione didattica e dottrinale che per secoli è stata il fronte principale di un’estetica cristiana e che inconsciamente domina ancora i nostri riflessi mentali. Si trattava principalmente di una preoccupazione per l’illustrazione del dogma indotta dal contesto controversistico in cui aveva preso forma quel particolare habitat liturgico. Ho la convinzione che da un certo punto in poi, quella tradizione figurale abbia rappresentato anche un ostacolo mentale per un rinnovato accostamento biblico-ermeneutico della tradizione teologica. Le immagini possono essere schermi con altrettanta efficacia con cui sono rivelazioni. Mi chiedo se una certa ossessione per la didascalia figurativa non vada a scapito di una comprensione più adeguata e profonda dello spirito della Scrittura. Mi chiedo, ad esempio, se quel neofìgurativismo che da tempo si sta facendo largo nella Chiesa e nel suo sottobosco culturale non sia in questo un segno di povertà spirituale (per quanto armato di una certa sicumera apologetica e sponsorizzato da importanti cerchie ecclesiastiche).
Quel grande laboratorio che è diventato l’ambito della cosiddetta arte contemporanea può e deve offrire risorse che persistono nel rimanerci sconosciute e che non abbiamo ancora imparato a riconoscere e selezionare. Nei nostri ambienti si passa dalla frequentazione ideologica al rifiuto pregiudiziale. Senza intermedi atteggiamenti di vero discernimento. Quello dell’arte contemporanea è un mondo che va conosciuto bene, nella sua multiformità, nel rispetto delle competenze richieste, per non affrettare giudizi che aggravano con segni di aperta ignoranza molti toni di ingiustificabile arroganza. Aiuterebbe comprendere che i paradigmi performativi dell’arte contemporanea sono tornati a dare all’arte uno statuto più vicino alla dimensione del rito-sacramento che a quella della figurazione-rappresentazione. In questo inequivocabile riallineamento il compito della cura estetica dei luoghi liturgici avrebbe enormi chance da cogliere. Naturalmente non senza mettere bene a fuoco aspetti critici da non gettare indistintamente nel sacco dell’irrisione o dell’indignazione.
(da G. Zanchi, Un amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana, Bologna, EDB, 2020, pp. 251-254)*