Alla metà del XIV secolo a.C., il re d’Egitto Amenhotep IV/Akhenaten tentò di imporre il culto di un unico dio, Aten, la cui fortuna durò poco più di una quindicina d’anni – un lasso di tempo assai ridotto all’interno della millenaria civiltà egiziana. Eppure, questa divinità e il suo re hanno lasciato un segno profondo nella storia delle religioni. Le vicende del regno di Amenhotep IV/Akhenaten sono state più volte narrate e costituiscono una delle grandi storie dell’Egitto antico; il periodo conobbe una serie di incomparabili personaggi, alcuni dei quali molto noti al grande pubblico, come la regina Nefertiti e il successore Tutankhamon. Ma è in primo luogo la peculiarità del comportamento di Amenhotep IV/Akhenaten a rendere questo sovrano tra le personalità più originali e rilevanti della storia egiziana. Nessuno dei suoi contemporanei avrebbe forse potuto prevedere che il giovane principe – figlio del grande Amenhotep III (1390-1353 a.C. circa) e della regina Tye –, che era salito al trono d’Egitto intorno al 1353 a.C., morisse appena 17 anni dopo con una pessima fama, ritenuto un nemico le cui idee dovevano essere osteggiate e il nome dimenticato. Infatti, se negli anni immediatamente successivi all’incoronazione il nuovo faraone si comportò, almeno in apparenza, in maniera piuttosto convenzionale, egli esibì ben presto una forte dose di risolutezza e indipendenza di spirito. Soprattutto a partire dal quinto anno di regno, egli prese una serie di decisioni – in ambito politico-religioso ed estetico – che lo collocarono al di fuori del solco della tradizione. Attraverso un nuovo sistema figurativo, il sovrano, affiancato dalla moglie Nefertiti, si presentò come l’iniziatore e il propagatore di una religione votata al culto dell’unico dio Aten, un termine già utilizzato in alcuni testi più antichi per indicare il disco del sole. Che il giovane re fosse consapevole di una tensione tra i principi religiosi tradizionali e la forza innovatrice delle sue idee è confermato dal fatto che modificò il suo stesso nome. In un gesto di totale rottura con il passato, disconobbe il proprio nome “Amenhotep”, che faceva riferimento al dio Amon di Tebe – che all’epoca si vantava di essere il «re degli dei» – a favore di un nome mai udito prima e che lo legasse al dio Aten, “Akhenaten”.
Anche il nome e l’immagine della divinità subirono una profonda trasformazione. Nei testi, essa non fu più conosciuta solo e semplicemente come Aten, ma attraverso un lungo nome, che venne inscritto – al pari dei nomi regali – all’interno di due cartigli e che doveva costituire una sorta di descrizione della natura stessa della divinità. Allo stesso modo, la sua immagine doveva evocarne l’aspetto percepibile alla vista e ai sensi, in primo luogo la luce e il calore emanati dall’astro. Il nuovo culto non fece più pertanto ricorso alla consueta immagine divina – così tipicamente egiziana – legata all’antropomorfismo e zoomorfismo, bensì a una raffigurazione astratta del sole, un disco dotato di raggi, un richiamo a ciò che tutti gli esseri viventi potevano vedere nel cielo diurno.
(da M. Zecchi, Adorare Aten. Testi dalla corte del faraone Akhenaten, Bologna, Bononia University Press, 2019, pp. 7-9)*
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