Sono passati novant’anni da quando l’antropologo Alfred R. Radcliffe-Brown pubblicò la sua celebre monografia sugli isolani delle Andamane, nel Golfo del Bengala, basata sulla sua personale esperienza di ricerca e su precedenti lavori di funzionari coloniali e viaggiatori. Sono passati sessant’anni da quando Claude Lévi-Strauss denunciava in Tristi tropici la «sozzura» (fisica e morale) che l’Occidente spargeva a piene mani sulle foreste dell’Amazzonia. È passato tanto tempo: eppure, il mito delle società isolate, «incontattate» (terribile neologismo), che non hanno mai visto l’uomo bianco, continua a essere molto forte se alcune agenzie turistiche organizzano oggi «safari umani», portando i viaggiatori alla «scoperta» di tribù primitive e selvagge come appunto i Jarawa delle Andamane o i Bonda dell’Orissa (India).
La ricerca del primitivo, del selvaggio, dell’incontaminato è un tema molto presente nell’immaginario degli occidentali. I «safari umani» dei turisti di oggi richiamano lo sguardo dei visitatori che affollavano le grandi esposizioni universali tra Ottocento e Novecento. In mezzo alle meravigliose tecnologie e macchine prodotte dall’industria, si potevano ammirare villaggi ricostruiti di selvaggi provenienti dai quattro angoli del pianeta. Ancora nel 1931, durante l’Esposizione internazionale di Parigi, un gruppo di Kanak della Nuova Caledonia – per lo più seminaristi cattolici! – vennero esposti nel padiglione dei «cannibali», proprio accanto ai coccodrilli. Smessi pantaloni, camicie e giacche, essi furono «abbigliati» con stoffe di corteccia e armati di clave di legno. La gente tirava loro noccioline e dolciumi, un po’ come fanno oggi i turisti della Andaman Truck Road che, in cambio di una fotografia, gettano del cibo ai Jarawa o chiedono alle loro donne di danzare a seno nudo per poche rupie.
I turisti, si dice, sono affascinati da questi «fossili» viventi, da queste popolazioni che sembrano provenire direttamente dalla preistoria e che si possono vedere e a volte toccare. In realtà, l’unico «fossile» in tutte queste storie è quell’atteggiamento che ha una lunga storia nella modernità e che consiste nel trasformare i nostri «simili» – esseri umani come noi – in «altri», in forme di «alterità» radicalmente lontane, opposte, incommensurabili. La trasformazione del simile in altro è una negazione della sua umanità. Essa si compie ricacciando i nostri simili in una dimensione temporale altra («primitivi» vuol dire letteralmente coloro che vivono prima), in uno spazio alternativo alla civiltà («selvaggi», ovvero che abitano le selve come gli animali non domestici), a volte perfino in altre forme corporee. È la negazione della possibilità stessa del dialogo, dello scambio, della comunicazione della condivisione.
(da A. Favole, La bussola dell’antropologo. Orientarsi in un mare di culture, Roma-Bari, Laterza, 2015)*