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Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento il rapporto dell’arte con la tecnica diventa un altro capitolo dell’estetica, uno dei temi della riflessione sull’arte. Se si riduce l’arte alla sua essenza puramente teoretica e la tecnica a mera attività pratica si decreta il divorzio tra arte e tecnica, come di fatto avvenne nel Settecento. Le tematiche relative al gusto, all’immaginazione e l’insistenza sul valore della creatività e unicità dell’opera del genio sanciscono la subordinazione della tecnica a quel “talento naturale”, di cui parla Kant. Certo, come vuole Hegel nell’Estetica, «l’abilità e la bravura nel campo tecnico e manuale costituiscono un lato del genio stesso». Tuttavia l’esasperato potere concesso all’immaginazione e al genio e soprattutto il credo via via imperante nella concezione dell’“arte per l’arte” sembrano essere le cause del sorgere di quel concetto di “tecnica per la tecnica” ormai del tutto avulsa dal fare artistico. La nota esclusione, da parte dell’estetica crociana, di qualsiasi portata della tecnica dal significato ultimo dell’opera d’arte può essere qui presa come esempio. Una dottrina dei mezzi dell’espressione interna è per Croce del tutto inconcepibile. L’espressione è «attività teoretica elementare», che precede la pratica e «le conoscenze intellettive che rischiarano la pratica» stessa. L’estetica, quale scienza dell’espressione esclude definitivamente la tecnica dal suo orizzonte. Croce riduce perciò l’arte a chiusa teoreticità, nella quale la tecnica non può mai darsi come estetica o come artistica (non può infatti mai darsi una tecnica del teoretico ma solo una tecnica del pratico). Sarà Antonio Banfi (1886-1957) in Italia, attraverso l’elaborazione di posizioni vicine a quelle di Simmel e di temi anticipati da Dessoir, a promuovere un razionalismo critico, nel quale si giustifica l’autonomia dell’arte, che non si spiega come una forma permanente dello spirito bensì nel senso di un empirico e multiforme manifestarsi dell’esperienza artistica. Tale esperienza non esclude, ma anzi richiede, la funzione universalizzante della ragione. D’altra parte il valore di un’opera d’arte è sempre il risultato di una molteplicità di fattori tra i quali, non ultimo, è quello tecnico. L’esame della realtà artistica implica quindi un coinvolgimento di quelle componenti tecniche, conoscitive, esistenziali e non ultime sociali, che concorrono alla formazione di un’opera d’arte. L’opera di Dino Formaggio (1914-2008), che si inserisce nella tradizione banfiana, porta alle estreme conseguenze un’estetica che si lega a un procedere fenomenologico dei vari piani della tecnica artistica. Formaggio, a partire dalla Fenomenologia della tecnica artistica, affronta infatti la questione del ruolo della tecnica nell’arte in netta opposizione al neoidealismo italiano. L’arte si basa su una funzionalità tecnica all’interno di un ambito fenomenologico “allargato” e l’estetica non è altro che una disciplina generale riferita ai processi sensibili che hanno per fondamento il corpo, la cui prassi progettuale coinvolge la percezione, l’immaginazione e la memoria. Separare l’arte dalla sua originaria pienezza funzionale significa staccarla dalla vita, dai momenti costitutivi della società e della storia. Ricostruire il significato originale dell’esperienza artistica diventa per Formaggio un imperativo inderogabile. È proprio nel «diventare “opera” che ogni tecnica cerca di liberarsi in arte e che l’arte trova continuamente la sua tecnica». Solo attraverso «il recupero di certe pienezze di significato del termine arte» è possibile, secondo Formaggio, «ritrovare con qualche fondamento una base che corra e leghi tra di loro arte-artigianato-industria».
(da E. Franzini e M. Mazzocut-Mis, Estetica, Milano, Bruno Mondadori, 2010, pp. 183-185)*
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