La questione di quando visse il Buddha (che potrebbe coincidere con quella della datazione di Mahavira, il fondatore del jainismo, giacché le fonti li dipingono quali contemporanei) è stata molto dibattuta tra gli studiosi. Le differenti tradizioni buddhiste sostengono datazioni piuttosto divergenti che vanno dalla prima metà del settimo secolo a.C. alla seconda metà del sesto secolo a.C. In particolare, il Theravada dello Sri Lanka accredita il 543 a.C. come data della morte del Buddha. La maggioranza degli studiosi ritiene, piuttosto, che il Buddha debba essere vissuto nel quinto secolo a.C. Il contesto storico della vita del Buddha descritto dal Canone del Theravada è quello dell’epoca in cui il re Bimbisara regnava su Magadha e Anga, mentre il re Pasenadi regnava su Kosala e Kasi. Questi Stati, con i loro sovrani, appaiono del tutto sconosciuti alle fonti greche contemporanee ad Alessandro, le quali fanno riferimento a un unico grande Stato che occupava il nordest dell’India, ossia il Magadha, che era sotto il dominio della dinastia dei Nanda. Ciò ci permette, se non altro, di concludere che il Buddha visse almeno un secolo prima dell’invasione dell’India da parte di Alessandro, iniziata nel 326 a.C. Secondo la tradizione il Buddha sarebbe nato a Lumbini, una località non lontana dall’odierno confine tra India e Nepal (sul versante nepalese), oggi meta di pellegrinaggio.
Sebbene il fondatore del buddhismo sia universalmente noto come Siddhattha Gotama (o Siddhartha Gautama, in sanscrito), in verità il nome personale, Siddhattha, al contrario di quello di lignaggio, Gotama, compare solo nella tradizione post-canonica. Forse era, in origine, solo un epiteto, giacché alla lettera significa “colui che ha realizzato il fine”. Il nome Gotama, pur attestato dalla tradizione più antica, è altrettanto problematico. Si tratta, infatti, di un nome brahmanico, derivato da quello di uno dei sette rsi, ossia veggenti vedici. Eppure la tradizione sostiene unanimemente che il Buddha appartenesse alla classe dei khattiya, i guerrieri, e non a quella dei brahmana, i sacerdoti. Del resto, nel Canone il padre Suddhodana è definito proprio raja, un equivalente di khattiya. Incidentalmente, la parola raja può significare anche “re”, ma è improbabile che questo fosse il senso esatto, proprio perché lo staterello dei Sakya, cui Suddhodana apparteneva, non era una monarchia. Solo la tradizione posteriore trasformerà Suddhodana in un maharaja, un sovrano. Oltre al titolo di Buddha, al fondatore del buddhismo è anche attribuito l’appellativo di Sakyamuni, ossia “il saggio dei Sakya” o “l’asceta dei Sakya”. Quello del clan dei Sakya era un piccolo Stato “repubblicano”, un ganasangha, nel senso che era governato dall’assemblea dei capifamiglia, all’interno della quale probabilmente gli anziani avevano maggior autorità. Il Buddha dirà che egli aveva strutturato la comunità dei monaci, il sangha, ispirandosi a quel tipo di organizzazione politica. Tra tutti i nomi del Buddha sin qui citati, Sakyamuni è quello tutto sommato più verosimile. (…)
La narrazione tradizionale vuole che dopo sei anni di ascesi Gotama si fosse seduto sotto l’albero che sarà poi detto della bodhi, cioè del risveglio, e che qui, dopo essere entrato in uno stato di profonda concentrazione, nel corso della notte acquisisse tre fondamentali conoscenze: durante la prima veglia la conoscenza (nana) di tutte le sue vite precedenti; durante la seconda veglia la conoscenza del kamma, che accomuna tutti gli esseri viventi e alimenta il ciclo della rinascita e, dunque, la sofferenza; durante la terza veglia la conoscenza delle quattro nobili verità (cattari ariyasaccani), accompagnata dalla dissoluzione degli influssi impuri. Al comparire della prima stella del mattino, Gotama conseguì la bodhi, il risveglio, che è polarmente opposta all’avijja, l’ignoranza, divenendo dunque buddha, risvegliato. (…)
Molte fonti tradizionali riferiscono le ponderazioni del Buddha che seguirono immediatamente il risveglio. Egli si chiese se esporre ad altri ciò che aveva compreso. Rifletté sul fatto che l’insegnamento sarebbe stato assai gravoso, poiché il dhamma è profondo, e gli esseri troppo attratti dai pur effimeri godimenti mondani. Decise quindi di non insegnare, di non fare di sé un maestro. A questo punto il dio Brahma o, in altre versioni, il dio Indra, intuita la sua risoluzione, gli si manifestò, domandandogli di insegnare, giacché almeno certi esseri “hanno poca polvere sugli occhi”. Udendo il dhamma, la dottrina, si sarebbero certamente risvegliati. Il Buddha convenne allora che i vari esseri si trovano a vari stadi di comprensione, non sempre troppo lontani dal risveglio, cambiò idea, e intraprese la predicazione.
(da B. Lo Turco, Buddhismo, in D. Rossi, a cura di, Fili di seta. Introduzione al pensiero filosofico e religioso dell’Asia, Roma, Ubaldini, 2018, pp. 18-24)*
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