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Per la giuria del World Press Photo Award, l’Oscar olandese del fotogiornalismo, il caso non esisteva. Benché ritoccata nei colori e nei toni, nella fotografia dello svedese Paul Hansen, che ricevette il primo premio per il 2012, «non sono state trovate prove consistenti di manipolazione». Era in corso una furibonda polemica, un po’ diversa dalle solite. Quella foto era accusata di una sorta di «reato di colore». Il capo d’accusa: una sensazione sgradevole di implausibilità nel «tono» dell’immagine. Il presunto movente: drammatizzare per vincere un premio. Di drammatizzazioni, quell’immagine non pareva aver bisogno. Mostra il funerale di Suhaib e Muhammad, fratellini palestinesi di due e quattro anni, uccisi il 20 novembre 2011 nel bombardamento israeliano della loro casa a Gaza City. Una testimonianza di dolore estremo da una guerra ingiusta e spietata.
Quella foto è stata effettivamente drammatizzata, agendo sui colori. Non è difficile da dimostrare e alla fine nessuno l’ha negato. Del resto, ne esistono almeno due versioni. Quella «da concorso» presentata al WPP. E quella «per il pubblico», precedentemente apparsa su un giornale svedese. Dal confronto, la differenza salta agli occhi. E al di là del verdetto, pone problemi. Sono lo stesso scatto, ma una foto racconta un funerale che si svolge in un giorno di sole brillante, e l’altra un funerale che si svolge in un giorno più velato. Una mostra un corteo di uomini con le facce rosse e l’altra un corteo di uomini con le facce livide. Se è lo stesso evento, non è certo lo stesso racconto. Non importa? Ma vi fidereste di un inviato «di penna» se scrivesse un reportage sullo stesso evento, per due giornali diversi, cambiando la descrizione dell’ambiente? Non avreste il sospetto che forse vi sta raccontando a modo suo anche altre cose?
Ma la domanda cruciale è un’altra. Questa fotografia avrebbe vinto il premio se non fosse stata rimaneggiata? La risposta è determinante. Come alcuni fecero notare, se la risposta è sì, che bisogno c’era del ritocco? Se la risposta è no, allora che cosa ha davvero premiato il WPP, una testimonianza giornalistica o uno stile d’autore? Cambiare un colore, scurire o schiarire un volto, accentuare o attutire una luce sono solo aggiustamenti formali e legittimi, per quanto arbitrari? Sono forma o contenuto? Modificano solo la presentazione, o anche il significato di un’immagine? E se parliamo di un’immagine di informazione, non alterano in qualche modo anche la notizia? E in che misura? Nella prassi redazionale gli interventi sui toni, i contrasti, i colori non sembrano essere comunemente percepiti come alterazioni del contenuto informativo di un’immagine. Sembrano riguardare solo le scelte di linguaggio con cui le informazioni vengono comunicate. Sembra che non sia avvertito il rapporto stretto fra la fotografia come genere giornalistico e la fotografia come campo retorico.
Conoscete i tre stadi della retorica: inventio, dispositio, elocutio. In tutti e tre si nasconde la possibilità di un’inflessione del messaggio. I primi due riguardano la ricerca e la selezione dei soggetti (inventio), la loro messa in relazione e in forma, con la scelta di cosa dire e cosa trascurare (dispositio). È soprattutto nel terzo stadio, l’elocutio, ovvero la scelta dei «modi per dirlo», che si può parlare di stile. Lo stile è considerato, anche nel giornalismo, una scelta di accento, magari discutibile sul piano del gusto, ma senza troppa rilevanza sul piano dell’etica della professione, e comunque inevitabile: non c’è discorso senza elocutio. […] Il colore è oggi la risorsa retorica che con ogni evidenza, direi con sfrontatezza, viene chiamata in causa dai fotografi per conferire ai propri lavori una riconoscibilità e uno stile.
(da M. Smargiassi, Bugie dell’elocutio, in R. Perna e I. Schiaffini (a cura di), Etica e fotografia. Potere, ideologia, violenza dell’immagine fotografica, Roma, DeriveApprodi, 2015, pp. 114-126)*
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