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Alla tecnica, ai prezzi e agli esperti si chiede di misurare, calcolare, dare risposte deterministiche e universali […]. Ma il capitalismo reale è una costruzione vivente e differenziata. Dunque, è più dell’efficienza della tecnica, è più della misura del prezzo relativo tra merci diverse, è più della ricerca asettica e neutrale dell’one best way. Certo, è vero: non può fare a meno di usare – in una certa misura – la tecnica, i prezzi e le ottimizzazioni del calcolo. Ma il capitalismo reale non si ferma a queste, che sono le sue premesse. In quanto sistema portante della modernità il capitalismo, fin dalle sue origini, vive proiettato verso il futuro e dunque verso il possibile. Per funzionare bene, la città del capitalismo moderno ha bisogno di immaginare, di desiderare, di raccontare il futuro e il possibile, senza delegare tutto alle scelte tecniche, ai valori di mercato, al calcolo del risultato più efficiente.
A tutto questo progettare e costruire che proietta il capitalismo reale in avanti, non basta allocare bene quello che c’è, delegando le scelte a qualche automatismo “efficiente”. Ai progettisti e costruttori di futuro serve molto di più: per guardare avanti bisogna, infatti, definire un orizzonte di senso, che dia un significato a quello che si fa, ai rischi che si assumono, agli impegni che si prendono. E questo orizzonte eccede le possibilità del calcolo e la saggezza degli esperti: tocca alle persone direttamente coinvolte elaborarlo, crederci, convincere altri ad adottarlo. Le persone, in altre parole, costruiscono il proprio futuro usando la tecnica, i prezzi, il calcolo razionale invece di essere usate da questi automatismi. In quanto sistema proiettato sul futuro, il capitalismo moderno è anche, di conseguenza, capitalismo personale: un sistema vivente che mette in movimento, al suo interno, l’energia di milioni di persone, costruendo con esse le sue città invisibili.
Non si può sensatamente discutere di modernità e di capitalismo moderno senza passare per la mediazione attiva delle persone che attribuiscono valore – anche valore economico – ai progetti e ai significati elaborati per costruire il futuro. Se, invece, si affida la produzione di valore economico ad automatismi ed esperti che offrono soluzioni oggettivamente razionali, ci si trova prigionieri di un sistema cieco, che non assume responsabilità sui risultati dell’azione e sul senso che essi hanno per le persone direttamente coinvolte. Un sistema che, di conseguenza, non immagina, non sperimenta e non apprende. È la via che la teoria economica prevalente ha percorso sino in fondo, durante il secolo scorso, arrivando a modelli matematici sempre più sofisticati. Ma rimane comunque una via che può dare poco, in termini di comprensione dei modi con cui il capitalismo reale genera valore economico. Infatti, la crescita del valore prodotto, nel capitalismo moderno, non deriva solo da una migliore allocazione dei mezzi, ma dipende in modo sempre più importante dalla capacità di immaginare, esplorare, desiderare, comunicare il futuro possibile. Ossia dipende dal contributo creativo delle persone, che – immaginando, esplorando, desiderando e raccontando il futuro possibile – danno un valore addizionale alle cose oggi prodotte dalla tecnica, allocate dai mercati, ottimizzate dal calcolo. Eliminando le persone, e il loro immaginare, esplorare, desiderare, raccontare, si elimina buona parte del valore prodotto. Soprattutto si elimina quella parte del valore dovuta alla proiezione del mondo moderno verso il nuovo e verso il futuro. Dunque, il rapporto tra capitalismo e persone non è un elemento accessorio nella storia della modernità. In un mondo complesso, il valore non sta negli oggetti, in sé, ma nell’uso possibile degli stessi, che deve essere immaginato, comunicato, progettato da qualcuno.
(da A. Bonomi e E. Rullani, Il capitalismo personale. Vite al lavoro, Torino, Einaudi, 2005, pp. 7-9)*
Riferimenti Bibliografici
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