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Il termine “cosmopolita” ebbe un’improvvisa diffusione nella cultura francese di inizio Settecento e venne utilizzato soprattutto dai philosophes per autodefinire loro stessi e la nuova visione del mondo che propugnavano. In particolare, è nella seconda metà del secolo che il termine ottenne un rinnovato successo, quando emerse con forza, per esempio grazie alle pagine della Storia delle due Indie di Raynal e Diderot, il rischio che la realizzazione dell’ideale cosmopolita delle Lumières si producesse sotto le spoglie del cosmopolitismo del mercato, veicolo di un processo di imbarbarimento morale e di spoliazione delle terre. A questo cosmopolitismo brutale e immorale si oppose allora un cosmopolitismo declinato quale universale rispetto dell’umano, fortemente solidaristico ed egualitario. La Repubblica delle Lettere dei philosophes cittadini del mondo si trasforma a questo punto in una Repubblica dei diritti, vale a dire in una societas globale, una comunità di diritto dotata di una propria peculiare infrastruttura giuridica, valida a prescindere dalle opzioni dei singoli ordinamenti statuali, nella quale gli abitanti dell’intero pianeta si vedono riconosciuti immediatamente una serie di diritti e doveri che ne trascendono la condizione formale di cittadini di uno Stato particolare. […]
Con la formulazione kantiana dell’imperativo normativo della pace e del diritto cosmopolitico si assiste a una radicale innovazione nel panorama politico settecentesco: si afferma la possibilità di identificare (e dunque anche di costituire) una sfera di convivenza che abbraccia tutto il pianeta e che è obbligata a livello giuridico, indipendentemente sia dal diritto vigente dei singoli Stati, sia dallo ius gentium giusnaturalista ancora fondato costruttivisticamente su un patto volontario fra le genti. Ciò significa che con Kant siamo in presenza di una fondazione giusrazionalistica della cittadinanza del mondo. Nel discorso kantiano infatti l’unione garanzia della pace perpetua non è una qualche unione di molti per un qualche scopo comune, ma è un’unione che è fine a se stessa. La pace diventa nelle pagine di Kant la proiezione di un dovere assoluto, un’esigenza trascendentale della ragione, che in quanto tale sfida costantemente l’andamento della realtà empirica.
La filosofia della pace kantiana e il suo cosmopolitismo costituiscono senza dubbio l’apice della riflessione illuministica, il punto più alto di quella dialettica che tentò di portare a conciliazione il dualismo, che inficia la modernità europea fin dalle origini, tra universale e particolare, tra civiltà e barbarie, tra popolo e populace, tra legge e libertà. E tuttavia anche l’ideale cosmopolita, come molti degli ideali illuministici, quali per esempio la ragione, la tolleranza o la felicità, avrebbe rivelato il proprio scacco quando, solo pochi decenni più tardi, e anche in nome di quella repubblica del genere umano che si sarebbe dovuta costruire grazie all’estendersi del rischiaramento delle menti e del progresso della civiltà, la teoria si sarebbe fatta pratica politica, le potenze europee si sarebbero nuovamente scatenate nella conquista del mondo e il cosmopolitismo si sarebbe trasformato da ideale regolatore della ragion pratica in strumento di lotta politica. Si può allora assumere anche il cosmopolitismo settecentesco quale espressione di quella continua opposizione fra l’universalismo dei diritti affermati nelle costituzioni rivoluzionarie e la particolarità degli Stati nazionali, fra il fine giuridico della kantiana pace perpetua e la volontà di potenza manifestata dalle sovranità, tutte dicotomie che connotano fra XIX e XX secolo tanto la storia degli Stati europei, quanto la loro pretesa di farsi signori del mondo, tanto le soggettività (dal cittadino allo straniero) che dallo spazio dello Stato vengono determinate, quanto le lotte politiche e sociali che quello spazio determinano. Dicotomie che ancora segnano e movimentano il nostro presente globale.
(da M.L. Lanzillo, Progettare la pace. Ordine sovrano, equilibrio di potenza e cosmopolitismo nel Settecento, in C. Altini, a cura di, Guerra e pace. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, Bologna, Il Mulino, 2015, pp. 159-187)*
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