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Dal Seicento in poi ci sono due serie di istanze che vanno a determinare una tensione che sarà alla base del pensiero politico moderno. Due serie, perché i termini che le compongono, pur rappresentando lo stesso tipo di taglio epistemologico e politico, ed essendo spesso scambiati per sinonimi, non sono in realtà equivalenti. La prima serie comprende per esempio la persona, l’individuo, il cittadino, il singolo, e cioè tutte le figure del particolarismo con le quali s’identifica un uomo in quanto è uno, il non universale assoluto o, in una certa misura, il sé. La seconda serie comprende, invece, le figure del popolo, della popolazione, della folla, della massa e, in seconda battuta, dell’associazione, della società, o della comunità. Data questa premessa, l’ipotesi che proverò a formulare è che, dal Seicento in poi (grosso modo da Hobbes in poi) queste due serie sono state giocate l’una contro l’altra solo per poter paradossalmente essere intimamente intrecciate; e che da tale articolazione è nata la definizione politica di ciò che può essere la forma e l’ambito di incidenza del contrattualismo e delle teorie della rappresentanza politica.
La presa in considerazione di queste due serie costruite l’una contro l’altra in una tensione da cui, tuttavia, deriva non solo la possibilità del loro intreccio ma l’invenzione di uno spazio politico e sociale nel quale viviamo, o perlomeno abbiamo pensato di vivere fino a poco tempo fa, delimita dunque il nostro campo d’indagine. Poniamo fin da ora la domanda che ci guiderà tra poco: perché il concetto di moltitudine viene squalificato da questo spazio politico, se non addirittura espulso da una griglia concettuale che non lo prevede? Quale pericolo la modernità vede nel concetto di moltitudine, per rifiutare di vederlo se non come sinonimo dei molti, vale a dire sotto la forma dell’informe (se non del deforme), della non-definizione politica, del pre-politico? […]
Il problema della moltitudine è dunque legato alla necessità di capire se il rapporto tra singolare e comune possano articolarsi diversamente – vale a dire al di fuori dell’opposizione alla quale i termini erano stati ridotti; e in particolare se questo rapporto debba essere letto come un rapporto di fondazione dell’uno nell’altro. Il singolare fonda il comune? Il comune rende possibile la singolarità? Oppure affermare che il rapporto di fondazione, quale che sia la sua natura, equivale ancora a opporre i termini e a disgiungerli – logicamente, cronologicamente, ontologicamente – mentre sarebbe più utile, seppure difficile, pensarli insieme, e a partire da quest’insieme, porre la costituzione della moltitudine?
(da J. Revel, Fare moltitudine, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 5-6, 27-28)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.