Audio integrale
Della camera oscura come dispositivo ottico elementare basato sul principio utilizzato per la costruzione delle macchine fotografiche tradizionali (prima cioè della digitalizzazione) hanno fatto uso la grande pittura del Seicento olandese – tra l’altro Vermeer – e già prima alcuni maestri italiani, primo fra i quali Caravaggio. E così anche Goethe, negli esperimenti della sua Teoria dei colori con cui vuol combattere la teoria newtoniana del carattere composito della luce. A sua volta, il grande lavoro d’indagine della fisiologia ottocentesca (J. Müller, Helmholtz) intorno al meccanismo della visione farà ricorso al modello della camera oscura per descrivere e illustrare la struttura e la funzione dell’occhio: nell’occhio, l’immagine del mondo esterno viene a proiettarsi, in quella che però non appare poter essere altro che una fissità oggettiva. Il ricorso al modello della camera oscura per rendere conto del processo della visione presenta quindi un aspetto intrinsecamente problematico, che risalta con particolare veemenza nel momento in cui, a sua volta, il processo della visione è assunto a paradigma del processo conoscitivo in generale: l’occhio è l’occhio di un soggetto, di un io che non si limita a registrare una serie di istantanee, ma reagisce in modo dinamico agli stimoli di un mondo esterno del quale esso medesimo, in quanto io di un corpo, si trova a fare parte, e si trova a far parte non solo nell’ordine spaziale, ma anche in quello temporale. E’ con il nascere della psicologia scientifica (Wundt, Stumpf) che tutto ciò prenderà rilievo specifico, con il contemporaneo affermarsi – via via che si diffondono le idee evoluzionistiche – della centrale importanza della funzione della memoria come base della vita psichica, sia della coscienza che dell’inconscio. Il modello della camera oscura viene così sostituito da quello dell’introspezione narrativa: un modello che in Henry James e ancor più in Proust trova una esemplare realizzazione.