Due considerazioni preliminari sono prese in esame da Alessandro Ferrara: quale rapporto ipotizzare nelle società multietniche tra cittadinanza (diritti) e cultura e di quale forma di giustificazione universale necessitano i diritti umani? Le risposte stanno nella capacità di garantire pari dignità alle diverse culture – unico mezzo per integrare senza assimilare – e nella fondazione giuridica, anziché morale, di ogni futura Dichiarazione dei Diritti Umani, anche in considerazione del fatto che quelle esistenti sono comunque il risultato di un mondo, quello dell’immediato secondo dopoguerra, decisamente diverso da quello attuale. E poiché la democrazia come l’abbiamo conosciuta non è più in grado di governare il conflitto attuale, determinato dalla relazione tra globalizzazione tecnico-economica e localizzazione dei processi identitari è necessario rilanciare, aggiunge Giacomo Marramao, una nuova sfida sui valori, in grado di costruire un nuovo universalismo. Ciò sarà possibile solo essendo disposti a riconoscere, come ha suggerito Amartya Sen, che in altre culture sono presenti elementi di universalismo più adeguati della ragione occidentale a far compiere all’umanità un salto in avanti. Senza dimenticare che ogni politica futura dovrà strutturarsi non sulla felicità, bensì sul suo contrario: si dovrà cioè privilegiare l’ottica degli infelici e codificare i diritti a partire dall’autorità di coloro che soffrono.