A differenza della rappresentazione della società, basata fin dall’inizio del secondo millennio sulla fissazione di un ordine ternario corrispondente alle principali funzioni dell’uomo medievale – coloro che proteggono, coloro che pregano, coloro che lavorano – la rappresentazione dell’identità sociale delle donne si esaurisce in una funzione binaria: coloro che pregano e coloro che generano. Condizioni diverse da quella monastica e da quella matrimoniale vengono recepite soltanto come condizioni assimilabili a queste, sostanzialmente marginali o comunque non riconosciute come uno status proprio: le semi-religiose, le vedove. È soltanto alla fine del secolo XVI, in conseguenza della frattura religiosa e del mutamento sociale connesso con i processi di trasformazione economica e di aristocratizzazione di gran parte delle realtà statuali centralizzate della prima età moderna, che nei paesi cattolici si introduce un «terzo stato» femminile: la zitella, la cui funzione sociale è sostanzialmente identificata con l’insegnamento prima e con la beneficenza poi. La trasformazione culturale, dall’abbandono del rituale, alla spiritualizzazione, alla beneficenza, si riflette sul vissuto femminile in una profonda innovazione: il riconoscimento sociale di una nuova funzione della donna: l’insegnamento, il lavoro al di fuori dell’ambito familiare. […]
Dal primo cristianesimo all fine dell’ ancien régime, e sostanzialmente per tutto il periodo in cui la società feudale prima e quella preindustriale poi assegnano un valore sociale alla verginità o all’uso della sessualità delle donne nell’ambito istituzionale del matrimonio, l’identità femminile è designata con un’unica condizione di vita: quella della sposa. Da condizione reale a metafora culturale l’immagine della sponsa si presta a esprimere in toto i requisiti richiesti per il controllo del corpo in una società in cui permane prioritaria la volontà della disciplina sociale e incontrastato il potere delle chiese e delle credenze religiose. La metafora della sposa vale tuttavia in tutta la sua ampiezza soltanto nei paesi europei in cui la frattura religiosa del secolo XVI non ha interrotto bruscamente con l’affermazione della riforma protestante il protrarsi dei simboli e riti connessi con la consecratio virginum e la professione monastica. Dalla prima antichità cristiana infatti l’identità femminile può essere designata con l’unica immagine della sposa perché la consacrazione delle vergini individualizza e trasforma in struttura istituzionale e culturale l’insegnamento evangelico delle vergini prudenti che attendono lo sposo con la lampada accesa (Mt. 25, 1-12).
Spose di Cristo o spose degli uomini, le donne sono identificate con una metafora che implica un rapporto con il maschile definito dalle più antiche e radicate tradizioni religiose e culturali della società mediterranea e occidentale. La condizione sponsale significa infatti, pur nel riconoscimento cristiano di una pari dignità dei sessi, la soggezione della donna all’uomo, l’accettazione della designazione sociale e della trasmissione dei beni per via agnatizia, la giustificazione di un sistema giuridico basato sulla tutela, la riduzione al privato familiare dei rapporti culturali, affettivi e di relazione. In qualunque status vitae la donna viva – quello di monaca professa, di maritata o di vergine -, lo statuto culturale che la designa è quello di sponsa. […]
Fino al crollo del sistema politico, economico e sociale dell’ ancien régime e alle trasformazioni normative e giuridiche relative ai sistemi familiari e al regime di proprietà, l’identità femminile si esprime principalmente nel concetto culturale di sposa e nei differenti statuti connessi alle diverse condizioni di vita. Nella lunga durata dei processi che riguardano la costruzione culturale del genere, l’identità femminile si presenta per secoli strettamente ancorata ad un unico referente segnico: quello del matrimonio e della famiglia. Ma è proprio questa unicità simbolica e metaforica che consente e favorisce l’allargamento delle funzioni e dei ruoli sociali femminili, fino al riconoscimento di una «terza via» nella condizione di vita delle donne.
(da G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, il Mulino, 2000, pp. 28-32)*
Riferimenti Bibliografici
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