Disuguaglianza digitale e diritti sociali. Strategie per una nuova cittadinanza

Biblioteca Malatestiana, Cesena

  • Donatella Selva

    Ricercatrice - Centre for Conflict and Participation Studies dell’Università LUISS di Roma

  • venerdì 29 Aprile 2022 - ore 17.30
Centro Culturale

Video integrale

Con le trasformazioni sociali e culturali offerte dalle piattaforme digitali, la retorica dell’innovazione digitale è diventata egemonica, conquistando un valore intrinsecamente positivo, quasi “evangelico”. Di sicuro ha contribuito a questa lettura una proprietà intrinseca dei media digitali, i quali, molto più di quelli analogici, consentono una diversificazione di usi: gli usi ricreativi (l’intrattenimento) si affiancano agli usi che potremmo definire partecipativi, in cui i media digitali diventano driver essenziali per la partecipazione degli individui alla vita economica e sociale (come negli usi per lavoro e per studio), nonché per la partecipazione politica (come l’interazione con altri individui all’interno di movimenti sociali, associazioni di volontariato, partiti politici) o l’interazione con le pubbliche amministrazioni e i governanti, come nel caso delle piattaforme di e-government e di open government. Questa diversificazione di usi possibili è alla base del concetto di capitale digitale: questo tipo di capitale si affianca ad altre forme di capitale economico, sociale, culturale, e identifica gli outcome, ovvero i risultati e le conseguenze sociali derivanti dalle diverse modalità con cui i media digitali vengono usati dai vari strati della popolazione. In passato si è avuto modo di notare che non vi è una rigida demarcazione tra usi ricreativi e usi partecipativi (di tipo sociale, economico o politico), nel senso che dal punto di vista dell’acquisizione delle competenze d’uso dei media digitali, entrambi i tipi di attività sono considerabili utili. (…)

Gli studiosi coinvolti nel dibattito sulla partecipazione (digitale o meno) sono concordi nel sottolineare che essa ha due presupposti: il primo è l’informazione, ovvero l’accesso al dibattito pubblico, e il secondo è il possesso di skill civiche legate all’esercizio consapevole dei diritti e dei doveri connessi allo status di cittadinanza. L’accesso e le skill civiche descrivono rispettivamente condizioni di uguaglianza formale e sostanziale, ed entrambe trovano un grande ostacolo nel divario digitale. In effetti, il digital divide è, in primo luogo, una metafora: coglie una linea di frattura tra chi sta dentro e chi sta fuori dalla società digitale, e quindi tra inclusione ed esclusione, tra uguaglianza e vari aspetti delle disuguaglianze e delle segregazioni. Studiosi e policy-makers hanno adottato negli anni diverse concezioni del digital divide: oggi si tende a considerarlo nella sua pluralità di forme, come divari digitali piuttosto che un solo divario. Una definizione molto generale è quella secondo cui il digital divide è «una divisione tra persone che hanno accesso e che usano i media digitali, e quelle che non lo fanno» (van Dijk, 2020). Storicamente l’enfasi sull’accesso si è affermata per prima, contrassegnando un divario di primo livello, accompagnata in seguito da una maggiore attenzione alle competenze, ovvero al divario di secondo livello. Le skill civiche si possono arricchire di skill digitali legate non solo alla capacità di interagire con gli strumenti tecnologici (digital literacy), ma anche alla capacità di abitare i media digitali e di navigare attraverso l’universo di contenuti proposti distinguendo tra fonti attendibili o non attendibili, informazioni vere o distorte. La media literacy, infatti, è «la capacità di accedere, analizzare, valutare e creare messaggi in una varietà di contesti» (Livingstone, 2004). Non a caso, la media literacy (o anche critical media literacy) è stata indicata come uno dei metodi utili a contrastare i fenomeni della disinformazione e come una qualità essenziale delle democrazie. Il concetto pone l’attenzione sulla capacità degli individui di valutare l’attendibilità dei contenuti, ragionando su elementi più ampi rispetto alle qualità specifiche dei contenuti stessi, quali la credibilità dell’emittente, il contesto storico e politico, le relazioni di potere che si muovono al di sotto dei flussi di informazione. È questo un tema dirimente, soprattutto nel nostro Paese, che non è tanto caratterizzato da un divario riguardante la disponibilità di servizi e dispositivi tecnologici per la connessione (anche se certamente esiste), ma una persistente situazione di scarso utilizzo del digitale e di scarse competenze digitali.

Un divario digitale di terzo livello è quello che interseca le disuguaglianze strutturali, cioè le diverse condizioni soggettive e collettive in merito all’accesso e al possesso di alcune risorse strategiche non solo per l’uso dei media digitali tout court, ma per l’uso di tali media per attivare dinamiche di inclusione sociale (al di là quindi degli usi ricreativi). Il concetto di divario digitale di terzo livello si basa sulla teoria della strutturazione di Anthony Giddens, secondo cui esiste un rapporto di rafforzamento reciproco tra le strutture sociali (in questo caso le disuguaglianze di classe, di etnia, di età e di genere) e i comportamenti individuali (l’uso dei media digitali). Tendenzialmente, le strutture delle disuguaglianze sociali si riverberano nell’uso dei media digitali in termini di motivazioni, disponibilità, competenze, e usi effettivi (quindi accedono di più i maschi giovani, con un livello di istruzione medio-alto, reddito medio-alto e residenti in centri urbani); allo stesso tempo, l’uso dei media digitali approfondisce la stratificazione e la segmentazione sociale. Si parla a questo proposito di una digital underclass, in cui ricadono ad esempio le fasce di popolazione che hanno accesso solo a dispositivi mobili (utili per gli usi ricreativi, ma poco versatili per gli usi partecipativi), così come alcune minoranze etniche e le classi sociali medio-basse; ma della digital underclass fanno parte anche tutte le persone che, per qualsivoglia motivo, non beneficiano dei media digitali come strumenti di partecipazione e arricchimento (come ad esempio gli anziani e i disabili, ma anche giovani e adulti che si limitano agli usi ricreativi). In questo senso, la digital underclass si distingue dalla concezione gramsciana di classi subalterne, perché queste vivono condizioni di marginalità dal punto di vista economico, sociale, culturale, a volte anche geografico; la digital underclass si basa sulla valutazione degli usi e dei benefici dei media digitali in termini di inclusione e partecipazione sociale, e non necessariamente coincide con la subalternità dal punto di vista socio-economico. Se il digitale è una delle strutture sociali più importanti della società contemporanea, segnatamente in periodi di crisi come quella legata alla diffusione del Covid-19, il capitale digitale diventa un ulteriore elemento di strutturazione del conflitto sociale.

 

(da D. Selva, Divari digitali e disuguaglianze in Italia prima e durante il Covid-19, in Conflitto e partecipazione democratica nella società digitale, a cura di M. Sorice, «Culture e Studi del Sociale-CuSSoc», 2020, 5(2), pp. 465-467).

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