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A partire dalla seconda metà dell’Ottocento la Chiesa cattolica si trova ad affrontare non solo un mondo che si va secolarizzando e che continua il suo cammino verso la modernizzazione, indifferente alle sue condanne e ai suoi anatemi, ma anche la perdita del suo potere territoriale. Si trova così a resistere all’interno di una nuova nazione, quella italiana, che è percepita come avversaria perché si è fondata, in certa misura, proprio «contro» di lei. È una situazione nuova, in cui «il movimento stesso della società diventa la grande forza ostile alla Chiesa, messa in causa e condizionata» (E. Poulat).
Si tratta di uno spiazzamento totale che la costringe, dopo secoli in cui era stata guida della società e spesso principale alleata dei gruppi al potere, a una posizione di opposizione e di alleanza con i gruppi sociali «perdenti», i contadini e le donne. In una prima fase, piuttosto che occuparsi di rafforzare i suoi alleati, la Chiesa indirizza tutte le sue energie alla lotta contro i cambiamenti, di cui molti pontefici hanno ribadito la pericolosità.
Nel 1864 Pio IX pubblicava il Sillabo, che costituiva la raccolta «dei principali errori del nostro tempo» e che contrapponeva una religione assoluta, atemporale, a un divenire storico in veloce trasformazione. Il compito dei cattolici era di riportare a questa immutabile norma di vita tutti i settori di una società che si stava rapidamente scristianizzando. La perdita del territorio da parte del Papato veniva così sostituita dal tentativo di creare un movimento cattolico integrale, teso a recuperare alla Chiesa quegli strati sociali che stava perdendo. Ma, pur vedendosi preclusa la via di un ritorno alle antiche alleanze con i ceti dominanti, la Chiesa cattolica non accetta di ripiegare sul «privato», chiudendosi in un devozionismo carico di opere di carità: per riconquistare la sua autonomia storica, si impegna nella resistenza sociale, appoggiandosi sulla sua base popolare.
L’intransigentismo del Sillabo, confermato nel 1891 dall’enciclica di Leone XIII Rerum novarum che si pronuncia, al tempo stesso, per una decisa condanna della modernità – «L’ardente brama di novità, che da gran tempo ha incominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine congenere dell’economia sociale» (E. Poulat) è evocata con una connotazione decisamente negativa – e per una partecipazione dei cattolici alla vita sociale degli stati laici, costituisce le basi per la creazione del «cattolicesimo sociale», cioè «una reazione decisiva contro il concetto di laicizzazione della società» (E. Poulat). In questa difficile situazione il ruolo delle donne acquista una grande importanza, un’importanza inedita per una Chiesa tendenzialmente misogina e poco disposta ad accettare un rovesciamento di alleanze, che la vede schierata con i più deboli. Il clero si adatta malvolentieri a un pubblico di devoti femminilizzato e la misoginia non accenna a diminuire neppure nel Novecento. Delle donne si parla con diffidenza, si attribuisce ad esse, facili a cedere alle lusinghe della moda e delle novità, la principale responsabilità del processo di scristianizzazione in atto, mentre la Chiesa si assume il compito di tenere sotto controllo la loro natura pericolosa: «Sapeva bene Ella (la Chiesa) che su la terra tutti si può cadere, e che debolissima, pel suo cuore, è la donna; e non sono mancate, ne’ secoli, le sue Provvide leggi» (C. Dau Novelli). Alla misoginia del clero si contrapponeva la diffidenza dei padri di famiglia nei confronti di questo rapporto privilegiato che le donne di casa – e soprattutto le mogli – stabilivano con i sacerdoti, in particolare con il proprio confessore, che sembrava mettere a repentaglio l’autorità del marito/padre. (…)
Ma queste paure erano ingiustificate: in realtà la manualistica cattolica rivolta alle donne, che nella seconda metà dell’Ottocento conosce una grande fortuna editoriale, non le incita certo a ribellioni contro gli uomini di famiglia. Il modello proposto è quello di una donna che, fin dall’infanzia, «più che i puerili trastulli, amò le occupazioni proprie del suo sesso» tanto da essere addirittura «bisognosa di freno nell’applicazione a ogni genere di donneschi lavori» (G. Ventura). Per questa donna modello, «la volontà del padre era […] un oracolo», e «non intrigava per procurarsi un marito, ma stava con indifferenza ad attendere dalle disposizioni divine e dalla prudenza e dall’amore dei suoi genitori il suo collocamento» (G. Ventura), poi obbediva allo sposo, e soprattutto si occupava strenuamente dell’educazione dei figli. La sua preoccupazione costante era vigilare sulla loro purezza – «li faceva dormire poco meno che tutti vestiti e colle mani incrocchiate sul petto […] si staccava dal loro letto solo dopo che erano addormentati» (G. Ventura) – pronta eroicamente a perderli piuttosto che vederli cadere nel peccato mortale.
(da L. Scaraffia, «Il Cristianesimo l’ha fatta libera, collocandola nella famiglia accanto all’uomo», in L. Scaraffia e G. Zarri, a cura di, Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. 441-444)*
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