«E la commedia mutò in tragedia»

Drammaturgia dell'«Otello» di Shakespeare

  • Guido Paduano

    Professore di Filologia classica - Università di Pisa

  • giovedì 28 Maggio 2009 - 17.30
Scuola Alti Studi

Audio integrale

Nella sua concezione mentale, e nelle prime fasi della sua realizzazione, nelle strategie e nei registri discorsivi, l’inganno di Jago sembra sovrapporsi al tema essenziale della Commedia Nuova: la manipolazione che un servo astuto fa del suo padrone, trattandolo come una pedina nel suo piano, e affermando una gerarchia intellettuale perfettamente opposta alla gerarchia sociale.

Ma mentre nella commedia il potenziale sovversivo è smussato o addirittura capovolto dal fatto che il danneggiamento subito dal padrone è superficiale quanto un gioco, e precario quanto la durata del giorno aristotelico, proprio il venir meno di una tale innocuità determina nel testo di Shakespeare non solo lo shifting dal comico al tragico, ma una diversa relazione fra i ruoli teatrali.

Dalla stessa profondità della ferita, infatti, la vittima trae ragioni di affermazione soggettiva che ridisegnano i suoi rapporti col mondo e col sé, e dunque limitano l’onnipotenza del demiurgo, dando vita a un inusitato regime di doppio protagonismo, fedelmente registrato nella storia scenica di Othello.

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 L’Otello ha alla sua base uno schema relazionale caratteristico della commedia. Su questo punto credo si debba avere maggior precisione storica e richiamarsi al modello classico che è imprescindibile per tutto il teatro moderno: la Commedia Nuova greco-latina, dove l’aspetto di cui parliamo è per noi rappresentato quasi solo dalle corrusche “versioni” di Plauto. (…) Sebbene espropriato della sua volontà e condotto ad operare contro di essa, nel rispetto di una parte che altri hanno scritto per lui, e di cui è portato a ripetere ogni gesto con una subalternità accresciuta dall’illusione di essere autonomo, il padrone della commedia plautina non lascia mai l’impressione di essere intaccato nel suo profondo da questa operazione. Ciò anche perché della sua personalità vengono rappresentati solo gli aspetti funzionalmente coinvolti nell’inganno, e dunque reversibili una volta che l’inganno sia venuto alla luce. Ma la distruzione che Jago induce in Otello facendogli credere che Desdemona gli sia infedele, e di conseguenza portandolo ad agire in modo conforme al suo progetto e non alla realtà, non è reversibile; non lo è già prima di essere suggellato dalla duplice morte, perché la sua definitività è già scritta nel mutamento che rende Otello irriconoscibile “È questo – chiede l’ambasciatore veneziano, di fronte all’esibizione di violenza sconnessa e di smarrimento fornita da Otello – i1 nobile Moro che il nostro Senato ad una voce dichiara eccellente in tutto? È questa la nobile natura che nessuna passione può scuotere? La solida virtù che i colpi del caso non riescono a trafiggere e neppure a scalfire?”. E Jago allora può rispondere, camuffando il raggiungimento del suo trionfo sotto le vesti di un’innocua e benevola scusante: “è molto cambiato” (IV.1). L’opposizione cosi descritta rende conto della differenza dei generi, non solo perché in questo modo il finale non può essere che luttuoso, ma soprattutto perché è alla tragedia che la tradizione assegna il compito di affrontare direttamente i grandi problemi della condizione umana.

(da G. Paduano, Shakespeare e l’alienazione dell’io, Roma, Editori Riuniti, 2007, pp. 49-51)

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