La distinzione chiara tra saggezza e sapienza compare per la prima volta con Aristotele, il quale definisce la saggezza come un sapere pratico, cioè orientato all’azione, ed avente per oggetto i mezzi più idonei a raggiungere un fine buono, e la sapienza come un sapere teoretico, cioè orientato alla pura conoscenza, ed avente per oggetto i princìpi supremi della realtà (Etica Nicomachea, libro VI). Prima di Aristotele si erano sviluppate sia la saggezza (ad esempio con i cosiddetti «sette saggi»), sia la sapienza (ad esempio con i filosofi presocratici), ma senza distinguersi l’una dall’altra. Anzi, le due forme di sapere erano state esplicitamente identificate da Socrate, per il quale la virtù è scienza (sia pure del bene) e da Platone, per il quale il bene, oggetto della conoscenza più alta, è sia principio supremo della realtà sia norma dell’agire umano.
Aristotele non solo distingue la saggezza (phronesis) dalla sapienza (sophia), ma subordina la prima alla seconda, affermando che «la saggezza comanda in vista della sapienza» (Eth. Nic. VI 13). La felicità, cioè il fine ultimo dell’uomo, consiste infatti per Aristotele nell’esercizio della sapienza, che tuttavia presuppone il possesso e l’esercizio di tutte le altre virtù (specialmente della giustizia e dell’amicizia). Nella filosofia ellenistica, cioè negli Epicurei, negli Stoici e negli Scettici, la distinzione tra saggezza e sapienza è stata rimessa in questione e il sapere teoretico (logica e fisica) è stato subordinato al sapere pratico, cioè all’etica. Solo nel cristianesimo e poi nel neoplatonismo il fine dell’uomo è stato di nuovo identificato con una forma di contemplazione, cioè in un atteggiamento teoretico.
Oggi la cosiddetta «riabilitazione della filosofia pratica» (Gadamer) ha ripreso soprattutto l’idea aristotelica di saggezza (phronesis), facendone il modello della filosofia ermeneutica, ma l’ha separata dalla sapienza, cioè dalla metafisica, riducendola in tal modo ad una specie di intuizione di tipo quasi estetico. Si può invece difendere la validità del modello aristotelico preso nella sua interezza, restituendo alla felicità la sua dimensione teoretica, cioè di fine ultimo.
Riferimenti Bibliografici
- P. Aubenque, La prudence chez Aristotle, Paris, P.U.F., 1963;
- E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1989;*
- E. Berti, Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1992;*
- H.G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983;*
- H.G. Gadamer, Verità e metodo 2: integrazioni, Milano, Bompiani, 1996;*
- W. Jaeger, Paideia, 3 voll., Firenze, La Nuova Italia, 1970 ss.;*
- C. Natali, La saggezza di Aristotele, Napoli, Bibliopolis, 1989;*
- M. Nussbaum, La fragilità del bene, Bologna, Il Mulino, 1996;*
- M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza, 1990.*
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