Internet è un fenomeno profondamente americano, sottoposto all’interesse geopolitico della superpotenza, coincidente con il suo dominio planetario. Nella versione attuale è stato sviluppato da privati, ma è nato nel ventre militare degli Stati Uniti ed è tuttora funzionale alle esigenze strategiche del paese. La Silicon Valley fornisce all’Nsa e alla Cia innumerabili dati per spiare alleati e antagonisti, ma non ha creato la tecnologia di cui dispone, non può esistere senza gli investimenti di Washington, non può sottrarsi alle imposizioni dell’amministrazione federale. Soprattutto, Internet è intrinseco alla globalizzazione, ovvero all’impero statunitense, ne è il versante virtuale, la dimensione parallela. Come il suo doppio strategico, la Rete globale è conseguenza diretta del crollo sovietico; dispone di matrice talassocratica attraverso i cavi posti sui fondali degli oceani; consente all’America di appropriarsi dell’intimità di miliardi di persone; impedisce alle altre nazioni d’essere realmente sovrane – comprese Russia e (parzialmente) Cina. Il suo futuro sarà inesorabilmente segnato dalla tenuta della supremazia statunitense, destini impossibili da sciogliere.
Come capita con le rotte marittime, il Web resterà universale fin quando Washington avrà la forza di imporsi sui suoi antagonisti. Soprattutto sulla Repubblica Popolare Cinese, impegnata a balcanizzarne l’estensione, attraverso l’esclusiva gestione dei server collocati in patria e la limitazione d’accesso per le società straniere. Attraverso il tentativo, tanto materiale quanto cibernetico, di usare l’intelligenza artificiale, per legare a sé i potenziali satelliti, sviluppo altro delle nuove vie della seta. Offensiva cui l’America risponde con l’aggressione commerciale, raccontata come protezionismo, come (improbabile) tentativo di porre fine alla propria pax, in realtà centrata sulle capacità tecnologiche del rivale. Mentre i suoi apparati sono impegnati a evitare che, in possesso di straordinaria liquidità e animati dalla brama di (ri)entrare nel mercato cinese, i giganti della Silicon Valley si pensino oltre le impellenze geopolitiche della nazione, finendo involontariamente per contribuire alle frantumazione di Internet. […]
Internet costituisce l’estensione artificiale del primato americano. Attraverso il virtuale la superpotenza gestisce l’unico mercato mondiale, mantiene connesse a sé le altre nazioni, controlla umori e intenzioni dell’ecumene. In sua assenza, conservare tanto sistema diventerebbe impervio, certamente più dispendioso. Il Web è universale dalla fine della guerra fredda, da quando l’amministrazione federale decise di diffondere all’estero un’invenzione già consumata nel 1969 in seno al Pentagono. Conferendole dimensione marittima.
Come il controllo delle rotte oceaniche è sostrato della globalizzazione – su di esse viaggia oltre il 90% delle merci mondiali – un enorme reticolo di cavi sottomarini costituisce l’indispensabile ossatura dell’Internet globale. Oltre un milione di chilometri di condotte in fibra ottica, su cui corre il 99% dei dati scambiati in Rete, depositate sui fondali nel corso dei decenni. Con gli Stati Uniti quale centro geografico e strategico del sistema. Accezione fisica di una realtà che si vorrebbe inspiegabilmente immateriale – addirittura ribattezzata cloud (nuvola) in caso di deposito di memoria – perché irradiata attraverso microprocessori.
(da D. Fabbri, L’impero informatico americano alla prova cinese, «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 10, 2018, pp. 9-18)*