“Esistono monumenti e segni di ogni genere che ci riportano vicini i lontani e gli scomparsi. Nessuno ha il significato del ritratto. Non ha bisogno di parlare e di guardarci, di occuparsi di noi, noi lo vediamo, sentiamo il nostro rapporto con lui crescere senza che faccia qualcosa, senza che senta di essere solo per noi come un ritratto. Non si è mai soddisfatti del ritratto di una persona che si conosce. Per questo mi hanno sempre fatto pena i pittori di ritratti. Si richiede così raramente alle persone l’impossibile ma da loro lo si esige. Debbono mettere nella loro immagine anche il rapporto di ognuno con la persona che figurano, la sua simpatia e la sua avversione non devono solo rappresentare una persona come la vedono e intendono ma come ognuno la intenderebbe”.
Queste riflessioni, che non si ritrovano in un saggio o trattato pittorico sull’arte del ritratto ma in uno dei romanzi più profondi della letteratura dell’età moderna – Le affinità elettive di Goethe (1809) – possono considerarsi una sfida al codice espressivo delle diverse arti che vogliono rappresentare con le immagini e descrivere con le parole il volto umano e i suoi lineamenti. A nessun organo, più che agli occhi, si connotano poteri e virtù legati non solo alla vista ma anche all’intelligenza e quindi alla facoltà di rappresentare le forme e i fenomeni del reale.
L’antica fascinatio degli occhi che Ovidio negli Amores attribuiva alla pupilla femminile è trasposta nell’immagine concreta di occhi in cui la letteratura, come le credenze religiose, riconoscono l’ambiguità di divino e demonia.
Nella storia della figurazione visiva l’occhio diventa simbolo dell’arte, segno dell’artista e della sua facoltà di creare nuove immagini.
La passione e la moda per gli studi di fisiognomica, la scienza convinta di riconoscere dal viso e dalla figura dell’uomo il suo carattere, se attribuiva al ritratto lo stesso rango della pittura di storia lo condannava anche al determinismo della tipologia. La letteratura dell’epoca romantica sovvertiva l’ermeneutica illuminista “del visibile” per scoprire le più oscure ispirazioni e interdizioni della curiosità visiva.
Se i monaci di E.T. Hoffmann si dannavano l’anima per vivere la storia non pia di un pio ritratto in dolorosa scissione fra immagine e realtà o, più tardi, la decadente maledizione di Dorian Gray delega l’usura del tempo e i vizi del corpo alla propria immagine dipinta, è pur sempre l’idea di un potere soprannaturale, magico e trasgressivo dell’artista a determinare i loro smarrimenti.
Il segno dell’occhio marca il luogo, la soglia, l’entrata e l’uscita della percezione ottica e insieme di una forma della conoscenza sensuale e intellettuale; appartiene alla iconografia della pittura e insieme a quella del ritratto dell’artista.
Riferimenti Bibliografici
- S. Alpers, L’officina di Rembrandt, Einaudi, Torino, 1990; *
- H. Belting, Bild und Kult - Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, Beck, München, 1990; *
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- G. Boehm, Bildnis und Individuum, Prestel, München, 1985;
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- E. H. Gombrich, L’immagine e l’occhio, Einaudi, Torino, 1985; *
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- W. Hofmann, Edouard Manet - Das Frühstück im Atelier. Augenblicke des Nachdenkens, Fischer Verlag, Frankfurt, 1991;
- L. Ritter Santini, Ritratti con le parole, Il Mulino, Bologna, 1994; *
- G. Simmel, Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna, 1985; *
- R. Zepperi, Annibale Carracci. Ritratto di artista da giovane, Einaudi, Torino, 1989.
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